C’è un dato che sfugge continuamente – forse perché parecchio scomodo – nel dibattito su fine vita, suicidio assistito e dintorni. E’ qualcosa di cui non si parla o, più facilmente, si ignora. Ed è un peccato perché è un aspetto fondamentale, che gli studi hanno rilevato in modo inequivocabile: i malati, le persone disabili, chi insomma vogliono vivere molto più dei cosiddetti sani. Lo ha per esempio riscontrato una ricerca su 168 individui affetti dalla micidiale sindrome locked-in – completa paralisi dei muscoli volontari, si riescono a muovere solo gli occhi -, che ha visto come queste persone esprimano pensieri o intenzioni di morte solo nel 7% dei casi (British Medical Journal Open, 2011), mentre gli italiani favorevoli all’eutanasia, secondo alcuni sondaggi, ammonterebbero al 70%: dieci volte tanti.

Analogamente, se da un lato è vero che i tassi di suicidio tra i malati – per esempio di cancro – sono più elevati della media, dall’altro si debbono considerare sia la depressione – più frequente in queste persone (European Journal of Cancer Care, 1998) – sia il fatto che costoro in genere coltivino pensieri di morte a ridosso della diagnosi, meno col passare degli anni, quando il dolore fisico si fa sentire ma aumenta l’accettazione della malattia (Nature Communications, 2019). Inoltre si è visto come spesso basti intervenire sull’autostima dei pazienti per prevenirne la richiesta di morte (Journal of General Internal Medicine, 2008). In ogni caso, ricerche anche datate fissano la percentuale di suicidi tra i malati di cancro allo 0,2% (AAVV. Questioni di vita o di morte, Guerini 2004); battersi per agevolare la morte significa adoperarsi quindi per una priorità che il 99,8% di essi non pare ritenere tale. Il suicidio interessa tre volte di più chi soffre di patologie psichiche (Istat 2008).

Che la battaglia per la «dolce morte» sia una priorità dei sani e non dei malati è inoltre provato da esperienze personali. Come quella della dottoressa Sylvie Ménard, oncologa – una quindi che la sofferenza dei pazienti lo conosceva bene – favorevole all’eutanasia. Fino a quando non è accaduto un fatto: si è purtroppo ammalata di cancro lei stessa. E, da allora, si batte per il diritto alla vita: «È cambiata la consapevolezza della vita stessa. Quando sei sano, pensi di essere immortale. Quando invece la tua fine non è più virtuale, la prospettiva si capovolge. Io, il “testamento biologico”, da sana, lo avrei sottoscritto. Ora no. Quando hai un cancro, diventi un’altra persona, e ciò che pensavi prima non è più vero». Come a dire: battetevi pure per il diritto di morire, prego: ma non fatelo in nome di chi è malato. Fatelo in quanto sani e ignoranti, letteralmente, della malattia.

Giuliano Guzzo

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