benedetto

La tentazione peggiore, in queste ore, è quella del giudizio. E, nello specifico, quella di pensare che il Santo Padre, scegliendo di abdicare – verbo decisamente più preciso del generico “dimettersi” –, abbia in buona sostanza voluto svignarsela. Proprio così. Al punto che più di qualche cattolico, appresa la notizia, si è subito azzardato a leggere nella decisione di Benedetto XVI una sorta di fuga dalla Croce e quindi di sofferto ma palese tradimento. Per rispetto il termine non viene mai impiegato, ma il concetto è quello.

Ebbene, per quanto fatichi tutt’ora a farmi una ragione della sua rinuncia ministeriale, ritengo che la scelta di Benedetto XVI – comunque destinata a rimanere straordinaria ed innovativa – vada in realtà in senso opposto: preferendo lasciare, il Papa non fugge dalla Croce ma sceglie di portarla il più possibile, silenziosamente, al posto della Chiesa cui altrimenti sarebbe toccato il peso – dal pontefice ritenuto inaccettabile in questa delicata fase storica – di una guida indebolita, di testimonianza, con poco governo.

Preferendo lasciare, il Papa antepone così la possibilità di una Chiesa guidata più lucidamente alla certezza di una che, domani, non sarebbe stata guidata o quasi. Dinnanzi al pericolo di un governo ombra, restituisce tutta la leadership allo Spirito Santo. E, dulcis in fundo, lancia un messaggio chiarissimo a colui che gli succederà: quassù si fa sul serio. Benedetto XVI non scappa dunque, si inchina. Nessuna retromarcia, ma un supremo atto d’amore. E di forza. Non un’imitazione di Schettino, uno spettacolare omaggio a San Paolo: «Quando sono debole è allora che sono forte» (2Cor 12,10).