piacere

Non lo so, sarà un mio pensiero, l’impressione singolare di un peccatore come miliardi di altri. Però l’aria sinodale – qualcuno dice addirittura conciliare – che in questi giorni soffia sulla Chiesa non mi convince del tutto. Da quanto trapelato, sembra infatti radicarsi, fra i centonovantuno padri convocati, una sostanziale resa non tanto a specifiche richieste mondane ma, addirittura, alla generale mentalità mondana. L’idea cioè che la Chiesa debba fare i conti col mondo, a volte, mi pare quasi anticipi il fatto che la Chiesa, e soprattutto i suoi servitori, debbono fare i conti con Dio. Se così fosse, se l’impressione certamente approssimativa di un peccatore come miliardi di altri, fosse anche parzialmente vera, sarebbe un problema. E la ragione di questa problematicità è semplice: se il doveroso esercizio della misericordia celasse la tentazione di piacere al mondo, di camuffare i peccati in sciocchezzuole da poco, la misericordia si tradurrebbe presto in un lasciapassare che renderebbe meno desiderabile non solo la misericordia, ma lo stesso Vangelo.

Se infatti si assottigliasse sempre più la differenza fra ciò che è cristiano e ciò che non lo è, perché rimanere nella fede? Se la condotta di chi cerca, sia pure fra errori ed infedeltà, di conformarsi agli insegnamenti di Gesù e quella di chi non si perita d’essersi già conformato a quelli del mondo quasi si equivalessero, che ne sarebbe della verità e, ancor prima, della carità? La centralità di questi interrogativi non deriva dal confondere il Cristianesimo con un codice etico né dalla nostalgia per chissà quale rigore morale passato, bensì dal bisogno di una direzione necessaria e cristallina, in assenza della quale – ripeto – il Cristianesimo stesso perderebbe d’interesse divenendo purtroppo solo una delle tante proposte esistenziali possibili. La dimostrazione evangelica di questo aspetto, peraltro rintracciabile in più accadimenti, è che è vero: Gesù ha a cuore anzitutto i peccatori (cosa, per me, estremamente consolante), ma mai si congeda da loro senza prima una chiara, forte ed inequivocabile richiesta: «Non peccare più».

In nessun caso, cioè, Gesù ha addolcito le sue parole. Neppure quando questo gli costava incomprensione. Lo si racconta bene nel Vangelo di Giovanni, che riferisce come «molti discepoli, dopo aver udito» quello che Gesù aveva predicato loro, «dissero:”Questo parlare è duro; chi può ascoltarlo?”» (Gv, 6:60). Sono le stesse lamentele che non pochi fedeli ed anche diversi non cattolici esprimono oggi nei confronti dell’insegnamento della Chiesa, giudicato troppo rigido: «Chi può ascoltarlo?». L’aspetto notevole è che la difficoltà di aderire al Cristianesimo veniva accusata da persone che, a differenza nostra, avevano a che fare direttamente con Gesù. Eppure neanche a Lui – il Figlio di Dio in persona, che certo non difettava di misericordia – furono risparmiate critiche: «Questo parlare è duro», si sentì dire. Critiche dinnanzi alle quali Gesù non solo ha vinto la tentazione di provare a piacere di più, ma ha rilanciato: «Perciò Gesù disse ai dodici: “Non volete andarvene anche voi?”» (Gv, 6:67).

Il punto allora è: come mai, di fronte ad un mondo che chiede novità alla Chiesa, non si sente rispondere – o si sente appena sussurrare – con quella domanda: «Non volete andarvene anche voi»? E’ la tentazione di piacere? Chissà. Intanto, non so voi, sarà solo un mio pensiero, ma a me seguire Gesù costa. E tanto. Mi costa sacrifici, impegno e soprattutto la ricorrente consapevolezza – non proprio esaltante, lo assicuro – di non essere vicino a Dio pur essendo lontano dal mondo, di rischiare di vivere da randagio, a metà strada, spaesato. Però non baratterei il percorso per nulla al mondo perché, mettendomi davanti ai miei enormi limiti, la Chiesa mi offre un perdono fantastico e totale che però non cercherei, se mi credessi già a posto. Sono stato vestito e sfamato e abbracciato perché sapevo – perché mi è stato detto – di essere nudo, malnutrito e solo. Se la Chiesa che mi ha finora accolto avesse, per paura di offendermi, tentato di dirmi che la mia nudità e il mio appetito e la mia solitudine erano illusioni ottiche, non avrei cercato – e non continuerei a cercare – quel Pane così buono. E mi perderei il meglio.