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Quasi fosse una cosa stranissima, Repubblica informa i suoi lettori del fatto che, alla vigilia della loro adunata nazionale a Udine, gli Alpini «temono di essere “provocati” e poi filmati a tradimento dalle donne. E allora, per evitare che qualcuno abbocchi, un gruppetto di alpini lo ha scritto in una chat e sui social: attenti, perché a Udine cercheranno di incastrarci». Il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari fa finta di non sapere come le penne nere non temano affatto «le donne» – figuriamoci -, ma altro: delle giornaliste o femministe che possano in qualche modo metterli in cattiva luce.

Beh, scusate, dov’è la notizia? Gli Alpini fanno non bene, bensì benissimo ad agire così. Anzi, secondo me è ancora poco – per quanto sia difficile scongiurare del tutto il rischio di qualche tranello. Dopotutto, il fatto che le adunate alpine coincidano con presunti episodi di molestie è ormai un classico del giornalismo progressista. È accaduto così con l’evento dell’Aquila nel 2015, di Trento nel 2018, per non parlare dell’adunata di Rimini dello scorso anno, quando si arrivò a parlare, udite udite, di «più di 150 testimonianze di atteggiamenti sessisti, molestie, violenze di genere, discriminazioni omolesbobitransfobiche».

Peccato che nel luglio dell’anno scorso uscì una notizia – che non ebbe, chissà come mai, la risonanza delle «più di 150 testimonianze» di moleste di cui si era parlato a maggio – di segno non diverso, ma totalmente opposto: quella dell’archiviazione della sola denuncia effettivamente presentata. Un’archiviazione determinata dal fatto che le indagini dei carabinieri non avevano trovato riscontri su quanto raccontato dalla presunta vittima. La cosa è stata così enorme che gli stessi Alpini poi si sono attivati a denunciare chi li aveva diffamati, presentandoli come un insieme di stupratori.

Ora, con simili precedenti solo Repubblica può meravigliarsi del fatto che gli Alpini temano «di essere “provocati” e poi filmati a tradimento dalle donne». Direi, infatti, che è il minimo sindacale, per una realtà sgradita anzi del tutto detestata per molteplici ragioni. Anzitutto perché l’alpino ha un’identità chiara fin dal suo cappello – e si sa quanto l’identità sia divenuta oggi una parolaccia -, in secondo luogo perché, spesso, è sinonimo di virilità – altra cosa vista come bestemmia, nell’epoca del gender fluid – e, infine, perché le penne nere amano la patria e il tricolore, fumo negli occhi, anche qui, per chi si vuol apolide e i colori se li fa scegliere dall’armocromista.

Giuliano Guzzo

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