
L’effetto politico e sociale generato dalla decisione con cui la Corte Suprema americana ha cestinato la sentenza Roe v. Wade del 1973, che aprì la strada all’aborto legale, è un forte inasprimento dell’attacco contro i conservatori e i cristiani. Lo si vede naturalmente in America, dove da molte settimane chiese e centri pro life sono vandalizzati – al punto che, per indagare su tale ondata d’odio, ha deciso di muoversi l’Fbi -, ma pure in Europa. Prova ne è, per esempio, la lettera che l’olandese Samira Rafaela, parlamentare del gruppo liberale di Renew, ha indirizzato alla Presidente dell’europarlamento Roberta Metsola affinché bandisca dalle sale riunioni di Bruxelles e Strasburgo le lobby pro life.
E che dire, poi, della reazione dei grandi media? Già a poche ore dal verdetto della Corte Suprema, anche in Italia si sono visti fior di conduttori e conduttrici non solo dichiararsi abortisti, ma iniziare ad affibbiare – a mo’ di insulto, si capisce – l’etichetta di «ultraconservatore» a chiunque solo osi discostarsi dall’indignazione liberal per ciò che, sui temi etici, sta accadendo negli Usa. Poi ci sono decine di surreali articoli di stampa dove, in questi giorni, i pro life vengono associati ai «no vax», ovviamente ai «putiniani», perfino ai suprematisti bianchi, in un crescendo rossiniano di rabbia e scemenze, segnato però da un chiaro comune denominatore: l’odio contro i conservatori i quali, beninteso, se ne sono accorti.
Che così sia lo si vede, restando a noi, alla paralisi dei partiti conservatori italiani che, attenzione, non solo si sono guardati bene dal manifestare vicinanza alla decisione della Corte Suprema americana – oltre un triste, quasi fantozziano «la legge 194 non si tocca» non s’è andati -, ma paiono capaci solo di dirsi preoccupati dallo ius scholae rilanciato dal Pd o dall’ipotesi di droga libera: null’altro; di una proposta davvero conservatrice – che so, sulla famiglia a sostegno delle giovani coppie oppure a difesa della vita nascente e morente – neppure l’ombra. Per carità, la sudditanza culturale dell’area che per comodità possiamo chiamare destra rispetto a quella progressista non è nuova, essendo ormai un elemento quasi tradizionale. Tuttavia, lo scenario colpisce e amareggia.
Sì, amareggia perché quanto accade in America, terra pur di tante contraddizioni e dai tratti a volte tutt’altro che entusiasmanti – si pensi al discorso armi -, sarebbe un’ottima occasione, pure da noi, per battere un colpo; per rilanciare un’agenda politica che vada oltre la difesa dei confini nazionali e il no alla droga; due temi sacrosanti, intendiamoci. Sacrosanti ma insufficienti a veicolare un’idea di Paese, di famiglia e in definitiva di uomo che invece – sia pure in chiave autodistruttiva – il progressismo propone e propina no stop, servendosi delle sue falangi: le aule universitarie, la «magistratura creativa», gli infuencer. Insomma, i conservatori sono sotto attacco, ma non reagiscono. Sonnecchiano. Al massimo sussurrano qualcosa, sprecando quella che oggi è una grande occasione.
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Il progressismo avanza a colpi di rivoluzioni. E ogni rivoluzione travolge una parte di ciò che una società continua tradizionalmente a conservare.
I conservatori rappresentano nel mondo l’unico freno alla rivoluzione, ma oggi si trovano con ben poco da proteggere e “conservare”; il più è andato perduto… a meno che non si cominci a scavare nel passato e recuperare, depurandolo da detriti e alterazioni, tutto ciò che di vero di bello e di giusto è stato buttato.
E gli unici conservatori oggi si trovano solo nella Chiesa e in quello sparuto gruppo di non credenti che difende la dottrina sociale della Chiesa. Naturalmente quella Chiesa che è rimasta cattolica e romana davvero (come quella difesa dal vescovo Zenti).