L’ultimo numero della rivista Time celebra la fu Ellen oggi Elliot – Page, con una prima pagina e un titolone, «Sono pienamente quello che sono», in teoria celebrativo di un iter di transizione sessuale in corso. In pratica però la foto racconta una storia ben diversa, come ha notato la scrittrice femminista Marina Terragni, dato che raffigura una persona dall’aspetto tutto fuorché radioso. «Pallido, emaciato, i tratti già induriti dal trattamento ormonale, il torace appiattito da una doppia mastectomia, l’aria non esattamente felice», sottolinea infatti la Terragni, aggiungendo un augurio condivisibile: «Speriamo che il seguito della vita gli vada meglio».

Ora, il punto non è Elliot Page, sulla cui vicenda personale nessun giudizio deve esser espresso. Il punto vero qui è Time. Più in generale, il punto è una pressione mediatica crescente in favore del transgenderismo, che ormai sta montando mese dopo mese. Qualche esempio? La scorsa estate è uscita la notizia di The Baby-Sitters Club, una nuova serie destinata ai giovani di Netflix. Narra le vicende di cinque adolescenti alle prese con il baby-sitting; uno dei piccoli accuditi è Bailey, bambino di cui si parla nel quarto episodio, che ha le sembianze di una fanciulla, pur essendo biologicamente maschio.

Il 29 gennaio di quest’anno è invece uscito su Apple TV+ Palmer, film con una star di prima grandezza – Justin Timberlake – incentrato sulla vicenda del piccolo Sam, interpretato da Ryder Allen, un bambino non a suo agio con la propria identità di genere. Si tratta, attenzione, solamente dell’ultima pellicola che si occupa di questi temi dopo che, nel 2015, a rilanciare il genere ci ha pensato The Danish Girl, film sulla storia di Lili Elbe, nato Einar Wegener, l’artista danese conosciuta anche per essere stata la prima persona ad aver subito, nel 1930, un intervento chirurgico di «cambiamento di sesso».

Ed ora, per tornare ai giorni nostri, ecco il turno di Time, che esalta apertamente un cambio di genere – quello di Elliot Page – che peraltro già aveva riscosso forte attenzione mediatica. Tutto ciò è assai rivelante e non si può considerare un passaggio neutro, in generale per gli utenti dei media e in particolare per le giovani generazioni. In effetti, inizia ad essere provata una associazione tra la copertura mediatica dati ai temi transgender e il numero di giovani che, in un Paese, poi si presentano ai servizi sanitari dichiarandosi a disagio con l’identità del loro sesso biologico (cfr. JAMA Netw Open. 2020).

Ma i media fan bene a trattare questi temi, si dirà, perché così una minoranza si sente rappresentata. D’accordo, ma perché una narrazione unilaterale? Perché cioè si celebrano singole storie, tipo quella di Page, anche se basta guardare bene una foto, come fatto da Marina Terragni, per dubitare della loro esemplarità? E soprattutto, perché non si raccontano con la medesima enfasi le vicende – parimenti umane, legittime e vere – dei detransitioner, ossia dei sempre più numerosi giovani che, provata l’ebbrezza della transizione di genere, decidono di ritornare al loro sesso biologico? La sensazione è che, come su tanti altri temi, i media liberal marcino compatti in una direzione. Quella della propaganda.

Giuliano Guzzo

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