Giovane, anzi giovanissima (la più giovane d’Europa a dirigere un’orchestra) e senza dubbio brava, Beatrice Venezi è pure una donna libera. Così libera da permettersi nientemeno che dal palco dell’Ariston – alla faccia di femministe e di un termine, «direttrice», che comunque risale ai primi dell’800 – di esigere d’esser chiamata al maschile. «Sono e voglio essere chiamata direttore d’orchestra», ha spiegato, «conta il percorso, la preparazione e l’obbiettivo». Ma questa che vuole? Non conosce l’italiano? È matta? Le reazioni scomposte non sono ovviamente mancate: forse ciò che il direttore Venezi si aspettava, di certo quello che non temeva.

Così, in un tempo in cui leggi e sentenze sembrano frasette da Baci Perugina – è famiglia qualsiasi cosa, «purché ci sia l’amore» -, in cui bisogna chiamare la gente non per ciò che è ma per l’«identità di genere percepita» – altrimenti sei transfobico -, in cui bisogna chiamare scrittori anche quelli che non sanno scrivere, intellettuali anche quelli che non dicono nulla di nuovo e politici pure quelli del Movimento 5 Stelle, in questo tempo strambo, dicevo, ecco che una bella donna dal nome dantesco ripristina il maschile delle parole, il passato rinnegato, l’ordine proibito. Una richiesta: chiamatela ovunque anche dopo il festival di Sanremo. Perché con Beatrice Venezi è tutta un’altra musica.

Giuliano Guzzo

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