La vicenda della prova di lingua italiana sostenuta ai fini dell’acquisizione del passaporto comunitario da Luis Suárez – il centravanti del Barcellona da mesi in trattativa per un trasferimento alla Juventus il quale, a detta dei suoi esaminatori, «non spiccica ’na parola d’italiano» – mi fa dire: magari. Magari gli esami di tanti laureati nelle nostre università fossero sospetti come quello del calciatore uruguaiano; invece sono tragicamente regolari.

Ciò nonostante assistiamo ad un generalizzato impoverimento non solo della conoscenza della nostra lingua ma pure della capacità di parlare, e di scrivere non ne parliamo: virgole messe e omesse a casaccio, punto e virgola dimenticato, frasi senza capo né coda, ragionamenti involuti, paroloni buttati lì tanto per. Il che, forse appena comprensibile – forse, eh – per chi abbia la quinta elementare, diventa orripilante per chiunque in possesso di qualsivoglia titolo superiore.

Eppure i sociologi hanno scoperto che il 28% dei nostri giovani ritiene che «elidere» significhi «volare», mentre il 24% sostiene che «abiurare» sia il verso d’un non meglio precisato animale. Per il 35% dei ragazzi della penisola, poi, «dirimere» è il sinonimo di «andare a zonzo» e quasi tre su quattro quando scrivono confessano indecisione tra il «se» ed il «sé». E non ci si illuda che il punto, qui, sia il livello di istruzione. Anche qui: magari il problema fosse quello, magari.

Invece abbiamo laureati che nei loro scritti, senza saperlo, coniano nuovi raggelanti vocaboli, da «ogniuno» a «comuncue», da «all’ungadosi» a «risquotere». Insomma, se davvero «non spiccica ’na parola d’italiano» Suárez rischia d’essere in nutrita compagnia; con la differenza che almeno non è italiano e quindi può essere scusato. Al contrario suo, noi invece attenuanti non ne abbiamo, per calpestare così selvaggiamente ed ogni santo giorno una lingua vastissima, elegante, divina. Ovunque tu sia perdonaci, Dante.

Giuliano Guzzo