Fra i tanti motivi che mi portano a prender convinte distanze dall’antirazzismo teppistico di queste settimane, che, iniziato come movimento di protesta contro l’uccisione di George Floyd, è degenerato in un movimento per l’uccisione dell’Occidente, c’è una drammatica dimenticanza: quella del cristianesimo. Perché l’antirazzismo o è cristiano, o non è. L’antirazzismo non sarebbe mai potuto esistere, infatti, senza il «non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Galati 3, 28) di paolina memoria.

Non per nulla il grande storico Lèon Poliakov, di famiglia ebrea, sottolineava che «la tradizione giudaico-cristiana» è «“antirazzista” e “antinazionalista”», che «l’antropologia della Chiesa ha sempre giocato un ruolo di un freno estremo alle teorie razziste», deviazioni che hanno attecchito solo dove ha prevalso «il rifiuto di vedere l’uomo creato a immagine di Dio» (Il mito ariano, Editori Riuniti 1999, pp. 245-246,370-371). Lo stesso Martin Luther King incoraggiava i suoi a darsi da fare «per ottenere il posto che ci spetta di diritto nel mondo che Dio ha creato» («I have a dream», Mondadori 2000, p.367).

Non parlava insomma, King, di uguaglianza tanto per, ma di «mondo che Dio ha creato»: c’è una bella differenza. Invece i sedicenti custodi della memoria di Floyd di fede e cristianesimo non mi pare non parlino affatto, e si vede: sfasciano, urlano, imbrattano. Se la sono presa pure con una statua di Winston Churchill, del quale tutto si può dire fuorché che i nazisti non li abbia combattuti. Ma è soprattutto tutta questa laica furia a non convincermi. Perché per affermare l’antirazzismo può bastare un buon politico, per dimostrarlo un buon biologo, ma per viverlo serve un buon cristiano. E agli indignati del momento il concetto non mi pare sia minimamente chiaro.

Giuliano Guzzo