Me lo ricordo bene, anzi benissimo, quel 19 aprile 2005: ero davanti alla televisione, elettrizzato dalla fumata bianca. Chi sarà il nuovo Papa? La risposta sarebbe arrivata dopo una manciata di minuti: Joseph Aloisius Ratzinger. All’udire «Ratzinger» – finora lo avevo sempre tenuto per me – esultai commosso. Lo so, queste son reazioni più calcistiche che cristiane, più di parte che da pecora del gregge cristiano. Però andò così. Esultai perché sapevo chi era quel cardinale tedesco, conoscevo il suo rigore intellettuale, la sua cultura, il suo modo impareggiabile di amalgamare sapienza e semplicità. Quindici anni dopo, ripensando a quel momento, resta tanta nostalgia.

Però, come sottolineavo l’altro giorno in una delle mie dirette Instagram – le tengo tutti i giorni alle 18:30, anche oggi per chi volesse -, quella ratzingeriana è, dopotutto, una nostalgia dolce. Perché Benedetto XVI può essere ancora incontrato nei suoi scritti, che sono molto più di più di insiemi di parole e riflessioni. Sono luce. Fasci di fede che rischiarano continuamente il presente ricordandoci, per esempio, che «il Cielo non appartiene alla geografia dello spazio, ma alla geografia del cuore. Ciascuno di noi è il frutto di un pensiero di Dio. Ciascuno di noi è voluto, ciascuno è amato, ciascuno è necessario. Non è di una Chiesa più umana che abbiamo bisogno, ma di una Chiesa più divina». Uno dei miei cantanti preferiti chioserebbe: ah, da quando Benedetto XVI non parla più…

Giuliano Guzzo