«Le false notizie in tutta la molteplicità delle loro forme – semplici dicerie, imposture, leggende – hanno riempito la vita dell’umanità», osservò una volta Marc Bloch. Chissà se il grande storico francese avrebbe mai immaginato che, sette decenni dopo la sua morte, quelle false notizie che, in fondo, accompagnano l’uomo da sempre sarebbero state elevate a pericolo sociale. Ma sì, perché è successo proprio questo: le false notizie o fake news, come si è universalmente preso a chiamarle, sono diventate una minaccia istituzionale di primo piano. Tanto che, il 22 febbraio 2017, il Corriere della Sera ci informava che è operativo in quel di Bruxelles un apposito team di esperti che, nei suoi primi 16 mesi di lavoro, nell’oceano del web ha scovato la bellezza di 2.500 menzogne.
E pensare che, fino a poco tempo fa, le «false notizie» di cui parlava Bloch non solo non generavano panico, ma suscitavano divertita curiosità. Come quella che anima l’infaticabile lavoro di Paolo Toselli, scrittore e studioso che per conto del CeRaVoLC, il Centro per la raccolta delle voci e leggende contemporanee, dal 1990 cataloga pazientemente le bufale di un certo successo, dalla presunta capacità corrosiva di monete della Coca-Cola ai segni che gli zingari lascerebbero in prossimità delle abitazioni da depredare, un falso cui hanno abboccato, negli anni, anche i carabinieri. Eppure è solo oggi, dicevamo, che le fake news destano notevole preoccupazione. Al punto che, si sostiene, sarebbero in grado di condizione l’esito degli appuntamenti elettorali. Di qui il fioccare di disegni di legge che, nelle intenzioni dei proponenti, dovrebbero scoraggiare la diffusione di bufale, in particolare di quelle via Internet.
Ora, posto che nessuno si augura che le bugie, contrariamente al noto adagio, abbiano le gambe lunghe, viene spontaneo domandarsi il motivo per cui il contrasto ad esse diventi così urgente solo ora, dal momento che l’intera storia del giornalismo, anche recente, di bufale è letteralmente costellata. L’elenco sarebbe davvero interminabile, ragion per cui tocca soffermarsi sui casi più clamorosi. Come quello che ebbe per protagonista Janet Cooke, la quale il 28 settembre 1980 raccontò sul Washington Post la toccante vicenda di Jimmy, un bimbo nero di otto anni che era stato drogato dall’amante della madre. La storia, come si dice in questi casi, commosse il mondo. Al punto che, l’anno dopo, valse alla Cooke nientemeno che il premio Pulitzer. Apoteosi.
Poi però si scoprì che si trattava di una montatura fabbricata dalla stessa Cooke che, smascherata, si sentì in dovere di restituire l’ambita onorificenza vinta. Ma se può succedere – e difatti è successo, come si è visto – che la firma di un quotidiano di fama mondiale inventi una storia di sana pianta, agguantando addirittura il Pulitzer, com’è possibile ritenere pericolose le fake news circolanti su Internet, senz’altro deprecabili ma relativamente poca cosa, dinnanzi a precedenti simili? E’ una domanda con cui pare opportuno confrontarsi. Anche perché, a ben vedere, bugie e inesattezze vengono propalate da tantissime redazioni. Incluse le più prestigiose.
Un quotidiano come Repubblica, per esempio, che ha fatto della lotta dalle fake news e della difesa della corretta informazione una vera e propria bandiera, il 22 ottobre 2010, in un solo giorno, fu costretto ad ospitare sulle proprie colonne non una, ma addirittura tre sonore smentite su quanto aveva pubblicato: una dallo scrittore Alberto Arbasino, che negò d’aver mai ricevuto compensi per partecipazioni televisive, un’altra dalla redazione di Porta a Porta, che negò di aver speso 20.000 euro per realizzare il plastico della casa di Avetrana teatro della morte di Sarah Scazzi, e una terza dalla stilista Krizia, la quale a sua volta smentì diversi particolari che il giornale fondato da Eugenio Scalfari aveva riportato sul suo conto.
Il punto è che, nel corso degli ultimi anni, la stampa non solo italiana ma occidentale si è resa veicolo anche di bufale gravissime, utili a giustificare agli occhi dell’opinione pubblica veri e propri conflitti armati. Il giornalista Roberto Vivaldelli, nel suo brillante saggio intitolato proprio Fake news, ne fa un elenco completo, che va dalle mai trovate armi di distruzioni di massa di Saddam Hussein ai presunti bombardamenti di Gheddafi contro il suo popolo, fino agli attacchi chimici di cui si sarebbe reso responsabile Assad. Tutte bufale che, a suo tempo, i rispettati mass media internazionali diffusero senza poi mai scusarsi per averlo fatto.
Al pari delle testate che si dichiarano in lotta contro la disinformazione, anche i giornalisti in prima linea contro le fake news, usi a predicare l’urgenza di rigore e professionalità per chi fa il loro mestiere, non sono immuni da sviste e papere. E’ il caso per esempio di Gianni Riotta, giornalista de La Stampa che da un lato figura tra i 39 esperti attivi per aiutare la Commissione europea a contrastare l’epidemia di bufale, ma, dall’altro, nel tempo è inciampato in numerose gaffe. Come quando, l’11 maggio 2018, mentre era ospite alla trasmissione Agorà, intervenne per correggere l’economista Antonio Maria Rinaldi, reo d’aver ricordato che l’articolo 1 della Costituzione recita che «la sovranità appartiene al popolo».
«Scusi, ma di cosa stiamo parlando?», sbottò Riotta fra l’incredulo e lo stupito, aggiungendo: «Io mi ricordo che l’articolo 1 dice che l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro. Lo dico perché altrimenti lo studente universitario all’esame dice “ho sentito ad Agorà che l’articolo 1 non è l’Italia fondata sul lavoro” e lo bocciano». Ora, non sappiamo quanti universitari fossero in ascolto quella mattina, ma è plausibile che più di qualcuno, seguendo la trasmissione, si sia chiesto come fosse possibile che un giornalista del calibro di Riotta, già direttore del Tg1, non si fosse reso conto che quello citato da Rinaldi altro non era che il secondo comma dell’articolo 1 della Carta Costituzionale, e che quindi non c’era alcuna fake news da smascherare.
Un’altra figura non eccezionale, per usare un eufemismo, il giornalista de La Stampa l’ha rimediata il 22 giugno 2018, quando ha denunciato su Twitter che l’ordine con cui Corte Suprema russa, per i mondiali, avrebbe concesso alla polizia di sequestrare i cellulari a chiunque, russo o no, «critica Putin» sui social. Peccato che quando l’ambasciata russa in Italia ha chiesto al Nostro le fonti della notizia, costui si è appoggiato al Moscow Times dimenticando che non è fonte ufficiale e che, comunque, l’ordinanza di cui riferiva l’articolo da lui riportato autorizzava il sequestro di materiale a potenziali terroristi, non certo a chi semplicemente «critica Putin».
Sarà per queste uscite approssimative che, nel 2013, Riotta finì nel mirino del celebre giornalista Gleen Greenwald, il quale contestò duramente un articolo del giornalista de La Stampa. «Tra tutti gli articoli pieni di bugie» letti sul mio conto – affermò Greenwald – quello di Riotta è «quello che ne ha di più e ha le più palesi». Si può ovviamente dissentire dall’avvocato e giornalista statunitense, ma probabilmente prima di affidare a qualsivoglia esperto, Riotta incluso, la patente di infallibilità o anche solo di correttezza suprema, assegnandogli il compito di stanare le bugie altrui, bisognerebbe pensarci bene e sincerarsi che costui abbia prima fatto fino in fondo i conti con le proprie. Per serietà, se non altro; e perché non è poi così vero che chi naviga su Internet abbocca alle fake news.
Illuminanti, a questo proposito, sono gli esiti di una ricerca commissionata dall’agenzia Reuters all’università di Oxford, che ha messo in luce come in Italia non più del 3,5 per cento degli utenti Internet avesse consultato siti di fake news, mentre i portali web di Repubblica e del Corriere raggiungevano rispettivamente il 50,9 per cento e il 47,7 per cento del pubblico. Quello studio mise inoltre in luce come il tempo trascorso mensilmente sui siti identificati come «inaffidabili» da «fact checker indipendenti e altri osservatori» non superasse i 7,5 milioni di minuti, equivalenti all’1,7 per cento di quelli spesi su Repubblica (443,5 milioni) e al 2,5 per cento di quelli spesi sul Corriere (296,6 minuti).
Sempre da quella ricerca emerse come nei meandri di Facebook le interazioni con il sito di Repubblica fossero 35 volte la media delle citazioni dei siti incriminati, che diventavano 14 nel caso del Corriere. L’idea che milioni e milioni di persone, su Internet, finiscano vittime di false notizie senza confrontarsi mai con siti autorevoli è dunque solo uno stereotipo funzionale a chi vuole demonizzare determinate fonti di informazioni allo scopo di accreditarne solamente alcune. Eppure, come ampiamente spiegato nei capitoli precedenti, ben prima dell’avvento di Internet è stata proprio la stampa ufficiale e sulla carta autorevole – sovrastimando gli aborti clandestini per inquietare l’opinione pubblica e favoleggiando di milioni e milioni di cittadini contrari all’indissolubilità matrimoniale, per spianare la strada al divorzio – a diffondere quelle che oggi sarebbero chiamate fake news. Senza che poi ci si sia mai scusati, per quelle panzane.
Allo stesso modo, non si ricordano editorialisti e giornalisti à la page irritati per il fatto che molti, ancora oggi, reputino il Medioevo, epoca dalle mille invenzioni, come la più oscurantista della storia; così come non suscita indignazione il fatto che il 30 per cento degli studenti europei – secondo un sondaggio di alcuni anni fa – creda che Galileo Galilei sia stato arso vivo e che il 97 per cento di essi ritenga che sia stato sottoposto a tortura, quando invece durante il celebre processo non gli fu torto neppure un capello.
Un’altra bufala storica di successo che non hai mai allarmato alcuno è quella della presa della Bastiglia, sempre raffigurata e celebrata anche artisticamente come impresa epica, quando in verità fu assai deludente dato che ad essere «liberati», quel 14 luglio 1789, furono meno di dieci prigionieri (quattro falsari, due pazzi poi trasferiti in manicomio, e un maniaco sessuale) e gli scheletri rivenuti nella fortezza, la prova provata – si disse – di quanto fosse mostruosa, erano in verità dei suicidi parigini che, non potendo essere tumulati in terra consacrata, furono deposti in un cortiletto interno; come se non bastasse, molto dopo si scoprì pure che solo poco più della metà dei 954 valorosi che, per averla assalita, si guadagnarono una pensione vitalizia e una ricca divisa, erano presenti quel giorno.
La diffusione di bufale, venendo a fatti più recenti, non preoccupava neppure quando su Internet si diceva che l’anello papale, ogni volta fuso e riutilizzato dal pontefice successivo, avrebbe potuto sfamare l’Africa; quando sulla stampa circolò una foto di Ratzinger quattordicenne davanti ad Hitler (impossibile: Ratzinger nacque nel 1927, la foto in questione risale al 1932); quando si raccontava che Benedetto XVI se ne andava in giro con scarpe di Prada, in realtà prodotto artigianale donato al santo padre da un artigiano novarese. Allora le menzogne andavano alla grande, non infastidivano affatto.
Quand’è, allora, che le fake news hanno iniziato ad essere un problema di rilievo internazionale? Se si fa attenzione, si scopre che esiste una data precisa a partire dalla quale la questione della corretta informazione – anche se del tutto corretta storicamente non è mai stata, come si è visto – è improvvisamente balzata in testa all’agenda politica. Quella data è l’8 novembre 2016. Il giorno in cui, stracciando la quasi totalità dei pronostici e stroncando la corsa della superfavorita Hillary Clinton, Donald Trump è stato eletto 45º presidente degli Stati Uniti d’America. Come mai la politica e in generale lo stesso mondo dell’informazione ha iniziato ad occuparsi freneticamente di fake news solo dopo l’elezione di Trump?
La spiegazione solitamente proposta è quella secondo cui, se il magnate l’ha spuntata alle urne, è stato solo grazie bufale diffuse in Rete dai suoi sostenitori. Il vero motivo all’origine della volontà, col pretesto di avversare le fake news, di proporre dei bavagli ad Internet e ai social network, potrebbe però essere molto più banale e riconducibile al fatto che durante la campagna elettorale presidenziale Trump, rispetto alla Clinton, poteva vantare molti più follower, quasi il doppio; il che poteva lasciare immaginare che, se non vittorioso, il candidato repubblicano fosse quanto meno competitivo mentre i media tradizionali lo davano sostanzialmente per spacciato.
Più precisamente, la Clinton godeva del supporto di 530 testate, una vera e propria corazzata editoriale, mentre erano appena 28 quelle schieratesi apertamente a favore di Trump. Una sproporzione incredibile a favore della candidata democratica, che tuttavia poi ha perso. Che la battaglia contro le fake news possa dunque essere, almeno in parte, espressione della risentita reazione del mondo dei grandi mass media che, in occasione delle ultime elezioni della Casa Bianca, ha scoperto di non riuscire più a condizionare efficacemente quell’opinione pubblica che credeva di avere in pugno?
E’ un sospetto che viene. Tanto più che, come insegnava Marc Bloch, che abbiamo citato all’inizio, la storia umana è stata costantemente attraversata da false notizie. Da sempre. Non c’è epoca in cui le menzogne non abbiano avuto successo, finendo pure con il condizionare in modo rilevante la società. Il fatto che solo ora alcuni avvertano le false notizie come un’emergenza fa dunque sorgere il dubbio che costoro, che pure amano atteggiarsi ad appassionati guardiani della deontologia giornalistica, non ne vogliano affatto la scomparsa, bensì il monopolio. Un’esagerazione? C’è da augurarselo.
(tratto dal libro Propagande, La Vela, Viareggio 2019)
ti segnalo caro Giuliano,, questa tua svista.
ciao ciao igor
E a proposito di fake news…
che dire dell’insistenza con cui l’informazione istituzionale e mediatica, fin dall’inizio di questa devastante epidemia, hanno pervicacemente cercato di convincere la popolazione sull’inutilità delle mascherine (che non si trovavano) e che ora (che si trovano) ci vengono fermamente imposte?
Come la dobbiamo chiamare una simile disinvolta capriola?
Ancora oggi nelle farmacie è esposto il “decalogo” del Min. della Salute (del 17 febbraio) dove al punto 7 si afferma: “Usa la mascherina SOLO se sospetti di essere malato o se assisti persone malate”. Principio ribadito il 5 marzo, dove al punto 11 si raccomanda: “Usare la mascherina SOLO se si sospetta di essere malati o se si presta assistenza a persone malate”.
E ancora il 6 aprile è proprio l’OMS che frena, divulgando l’ Advice on the use of masks in the context of COVID-19 nel quale dichiara che “al momento non ci sono prove che indossare una mascherina (sia medica o altri tipi) da parte di persone sane in un contesto di comunità più ampio, compreso il mascheramento universale della comunità, può impedire di contrarre virus respiratori, incluso il COVID-19”. Ripreso nelle sue conclusioni poi dall’ European Centre for Disease Prevention and Control, dall’ISS e dal Ministero della Salute.
Un giorno ci si dovrà chiedere quanto, questa ostinata guerra preventiva all’uso diffuso delle mascherine, ci sarà costata in termini di sacrifici, di vite umane e di risorse economiche perdute.
sempre riguardo l’attuale triste periodo, dal 7 febbraio il Ministero della Salute ha mandato in onda sulla Rai uno spot con “ma non è affatto facile il contagio” (anche in sovraimpressione, in modo che il messaggio rimanesse ben inculcato). Roba da denuncia per procurata epidemia. Governo e Rai che vogliono la commissione contro le fake news.
Attenzione alla faccenda delle armi di distruzione di massa di Saddam “mai trovate”: qui la vera notizia fallace è l’affermazione che “non sono mai state trovate”. In realtà il compito degli ispettori dell’AIEA non era quello di trovarle, dato che sulla loro esistenza non è mai sussistito il minimo dubbio, e non per niente è stato esattamente con quelle armi che aveva sterminato molte migliaia di curdi nel 1988, ed è di quelle armi che una quindicina d’anni dopo sono stati intercettati camion con 20 tonnellate che stava trafugando in Giordania. Al contrario, era Saddam che doveva dimostrare di averle distrutte, come andava affermando, e questo era il mandato degli ispettori AIEA: trovare le prove della loro distruzione. Che non hanno trovato perché non sono mai state distrutte. Quanto alle armi, semplicemente impensabile che potessero trovarle, dal momento che per ben dieci anni Saddam ha impedito l’ingresso in Iraq degli ispettori, poi, grazie alle pesanti pressioni, ha accettato di lasciarli entrare ma ponendo il veto su un determinato numero di siti sensibili, divieto assoluto di parlare con chimici e tecnici, e – la prudenza non è mai troppa – il giorno prima del loro arrivo 13 chimici che avevano lavorato alla produzione delle armi di distruzione di massa sono stati misteriosamente assassinati.
Quanto alla foto di papa Ratzinger col braccio teso, è in realtà del 1951, ed è stato un rabbino a spiegarmela: c’è una particolare benedizione che impartiscono i cohanim, cioè i sacerdoti discendenti di Aronne, cioè tutti coloro che si chiamano Cohen (anche con altre grafie) e che si recita con le braccia tese in avanti, per proiettare su tutti i presenti la benedizione divina (c’è un video di Leonhard Cohen in cui canta Hallelujah, e alla fine della canzone recita quella benedizione, in ebraico, con le braccia tese verso il pubblico). Questo rituale è stato conservato dal cattolicesimo nel rito dell’ordinazione sacerdotale: il neo ordinato sacerdote riceve la benedizione e subito dopo si gira verso gli astanti e tende le braccia, per riversare su di loro la benedizione appena ricevuta. Dalla foto di quel momento è stata tagliata la parte sinistra, mentre nell’originale si vedono entrambe le braccia tese per porgere la benedizione con l’antichissimo gesto.