Adesso che a «è poco più di una influenza» non crede più nessuno, adesso che il coronavirus ci ha mostrato di cosa è capace, paralizzando l’Italia e facendone in una manciata di giorni il lazzaretto dell’Occidente, sono arrivati i giorni della prova. Non per i nostri medici e infermieri, che pure sono le nostre prime linee: per tutti noi. Siamo chiamati a fronteggiare un nemico sconosciuto, a cui non si era pronti. Perché i nostri nonni hanno visto la Seconda guerra mondiale, i nostri padri sono testimoni degli Anni di piombo e la mia stessa generazione è stata spettatrice dell’11 Settembre 2001: eppure un’epidemia mondiale, così, non la ricorda nessuno.
Che fare, dunque? Ci sono tre parole, che sono anche tre valori, che possono essere di fondamentale aiuto. La prima è responsabilità. La prima cosa da capire o riscoprire, in questo periodo, è cioè che alle nostre azioni corrispondono sempre delle conseguenze per le quali siamo chiamati, in coscienza e non solo, a rispondere. Decidiamo di correre dei rischi frequentando dei luoghi affollati, con la concreta possibilità di contrarre il coronavirus per poi – magari senza accusare sintomi o cavandocela con una influenza solo un po’ più fastidiosa – contagiare altri? Noi siamo responsabili verso questi altri. Decidiamo di isolarci, riducendo il minimo i contatti con terzi? Noi restiamo responsabili verso costoro: ma in modo altruistico e non egoistico.
Una seconda parola da riscoprire è sacrificio. Si tratta di qualcosa che il relativo benessere in cui siamo cresciuti ci ha fatto dimenticare, collegandolo in automatico al solo concetto di privazione. Ma il sacrificio può essere, anzi è anche molto altro. Perché stanno facendo sacrifici i nostri fratelli lombardi – che hanno sulle spalle i costi umani, sanitari ed economici più elevati di queste settimane -, i nostri medici, con turni interminabili, i nostri amministratori, i quali, con tutti i loro limiti, stanno cercando di proteggerci al meglio: eppure nessuno di costoro, facendo sacrifici, sta faticando vanamente. Al contrario, tutti stanno lavorando per uno stesso scopo: contenere e vincere l’epidemia, preparando non solo per loro – ma per il Paese – un nuovo inizio.
La terza parola da ripensare è fiducia. Dobbiamo avere fiducia. Verso noi stessi, verso il nostro prossimo, verso l’Italia. Gli scienziati e i virologi – e grazie a Dio ne abbiamo di valorosi – possono darci ogni spiegazione su quest’epidemia; ma neppure la spiegazione migliore esaurisce il nostro bisogno di altro. Perché oltre alle singole spiegazioni abbiamo bisogno anche, se non soprattutto, di un significato più ampio. Ebbene, avere fiducia vuol dire sapere che queste settimane durissime un significato l’hanno. Quale? Ora non è dato saperlo. Forse il coronavirus è venuto a risvegliare in noi proprio la memoria della responsabilità e del sacrificio; o forse se ne andrà lasciandoci una rinnovata gratitudine per la vita: ma solo se avremo fiducia riusciremo a scoprirlo. Coraggio!
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L’ha ripubblicato su Pastor Aeternus proteggi l'Italia.
Nulla è mai un caso….
Caro Guzzo, questa volta la devo contraddire: che nessuno creda più che questo virus «è poco più di una influenza» non significa che non lo sia. La gente terrorizzata dai media e dalle mosse scomposte e spropositate dello stato e delle pubbliche amministrazioni può credere quel che vuole (o quel che è indotta a credere). Ma resta il fatto che di una normalissima influenza si tratta: né più né meno. Continuare a farla passare per la peste bubbonica o il colera non solo non la rende più grave, ma al contrario contribuisce ad alimentare quel clima di panico nella popolazione e nei rappresentanti delle istituzioni che sta già avendo conseguenze deleterie (e, temo, ormai irreversibili) sull’economia italiana, specie quella del Nord (che è l’unica che funziona davvero). Questo non significa solo aggravare la recessione (che resta comunque inevitabile), ma aprire, quando questa farsa collettiva si sarà finalmente conclusa, ad un grave periodo di depressione che affosserà (definitivamente, temo) la già debole economia di questo sciagurato paese (che Dio lo protegga). O pensate che, dopo averci fatto passare per degli appestati in tutto l’orbe terraqueo e aver messo in quarantena le aree più produttive della naziome per Dio sa quanto tutto tornerà come prima?
Le normali influenze hanno una mortalità che varia dallo 0,01 allo 0,05, il covid19 ha una mortalità media del 4,5%, ma a Milano ha superato il 6%, vale a dire che la mortalità è da 120 a 500 volte quella dell’influenza. Le auguro di non doversi svegliare dal suo confortante pensiero magico col coronavirus addosso e gli alveoli pesantemente attaccati, e scoprire che in rianimazione non ci sono più posti perché quelli che “non si sono lasciati prendere dal panico” e hanno continuato a frequentare bar ristoranti eccetera hanno saturato le capacità ospedaliere.
@ Sbazze…che? 👇
E’ l’anagramma di Giuseppe Bottazzi (Peppone di Don Camillo)
L’ha ripubblicato su Organon.