Non si può dire fossi un ospite atteso, anzi. Nessuno chiedeva di te, nessuno minimamente t’aspettava: eri l’unico straniero indesiderato nella stagione globalista nella quale esser stranieri è quasi un merito. Però ora sei qui, ti ci ha portato il coronavirus. E nonostante le due sacrosante parole d’ordine – «niente panico» -, non si può negare, sia pure tenuto ben sotto controllo, tu ci sia. Per quale ragione? Qual è il senso di questa tua sgraditissima visita? Se la sentenza spetta ai posteri, le impressioni spettano ai presenti.

Motivo per cui, da cittadino di un’Italia in cui in meno di 24 ore si è passati da calma apparente a calma simulata – con decine di contagi e già delle vittime -, avanzo delle ipotesi. E ipotizzo che la tua presenza serva a ricordare che il bene comune prevale sull’autodeterminazione, che solo certo culturame ha potuto elevare a valore assoluto. Ipotizzo anche tu serva a rammentare che il controllo dei confini – aerei, marittimi, tutti i confini – non è una fissazione sovranista, ma un diritto fondamentale: un Paese che non si presidia è un portatore sano d’imbecillità.

Ancora, ipotizzo tu sia qui per ricordarci che, quando si ha che fare un problema serio, le visite nelle scuole multietniche, gli strali contro la xenofobia e tutto il resto, ecco, non siano esattamente una priorità: metter fra parentesi il discorso salute pur di apparire antirazzisti non significa essere antirazzisti, ma idioti. Ipotizzo insomma il tuo soggiorno italiano sia un modo – certo brutale – per riportarci al caro vecchio buon senso, che è il valore conservatore per eccellenza perché conserva la vita. Quindi, sperando la tua visita breve, e col desiderio di fronteggiarti con il sorriso perché è il solo modo per neutralizzarti, te lo dico: benvenuto, panico.

Giuliano Guzzo

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