C’è la forma, che può essere aulica, elegante finché volete anzi «istituzionale», per dirla con un termine tornato di colpo in auge; c’è la forma, insomma, ma c’è pure la sostanza. E la sostanza dell’intervento di questo pomeriggio di Giuseppe Conte, presidente del Consiglio dimissionario, è stata chiarissima: un attacco concentrico a Matteo Salvini, bersagliato di critiche che, non a caso, hanno incassato sorrisi e applausi piddini. Al Movimento 5 Stelle, solo un buffetto. Al punto che a tratti quasi non si capiva se quello era un discorso di commiato o di insediamento, se un sigillo o un incipit. Staremo a vedere.

Ora, si dirà che è ovvio l’«Avvocato del popolo» ce l’abbia col Capitano, reo d’averne affossato il governo. Ovvio non so, ma quando le critiche iniziano ad essere tante, con certe del tutto gratuite – il richiamo all’inopportunità d’esibire simboli religiosi, per esempio, con la crisi odierna c’entrava non zero, ma meno di zero -, solo l’osservatore distratto non può comprendere che Giuseppe Conte oggi non ha voluto togliersi qualche sassolino dalle scarpe: si è proprio voluto smarcare dall’ex alleato, facendone passare l’estinta collaborazione per incidente di percorso. Sì, d’accordo, nell’intervento del premier si sono sentiti pure ringraziamenti ai ministri leghisti, ma quella è forma, signori.

La sostanza è stata ben altra. Ed è stata, in aggiunta a quanto già detto, quella di una pesantissima critica allo scenario elettorale («sciogliere le Camere bloccherà le riforme»), a cui Conte non ha fatto seguire alcun esplicito annuncio di addio alla politica. Il che, se due più due fa quattro, qualcosa significa. Che cosa? Inciuci in corso. Arare. Preparare il terreno a nuove esperienze. Che potrebbero vedere il Movimento 5 Stelle accettare di collaborare con altre forze (Pd e Leu, anzitutto) a patto che sia ancora lui, Giuseppe Conte, a guidare la squadra di governo. In questo modo i pentastellati darebbero un segno di continuità forse utile per ripristinare un consenso in calo.

Certo, anche mantenere Conte in sella potrebbe non bastare per salvare la faccia a un partito che ora – inutile raccontarsela e girare la frittata – rischia un’alleanza proprio con Matteo Renzi. Il quale, da buon volpone, ha già messo le mani avanti dichiarando che non ha ambizioni governative; ma, a parte che di ambizioni non esistono solo quelle (AAA Commissario europeo cercasi, e forse ora trovasi) – e a parte che la parola renziana non fa esattamente rima con credibilità -, rimane il fatto che oggi, in Senato, ad intervenire per il Pd sia stato lui. E qui siamo ancora al punto: non la forma, non le parole, ma la sostanza.

Per questo, mentre la palla è nelle mani del Presidente Mattarella, non resta che attendere sottolineando fin d’ora che non stupirebbe vedere il Movimento 5 Stelle ancora al potere, ma con altri. Del resto, il contratto del nuovo governo è già stato scritto. Quando? Il 16 luglio scorso quando il Parlamento europeo – facendo seguito alla designazione del Consiglio – ha eletto, con i voti non utili ma proprio decisivi e imprescindibili dei 5 Stelle, Ursula von der Leyen. La maggioranza «Ursula», insomma, già c’è, tanto che ha incassato la benedizione di Romano Prodi. In altre parole, la sostanza è già bella e pronta. Ora non resta che confezionare la forma così da tentare di fare credere che così non sia. Peccato che gli italiani proprio scemi non siano.

Giuliano Guzzo

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