E’ polemica per le parole di don Donato Piacentini, il parroco del comune in provincia di Frosinone che poche ore fa, in occasione della festa patronale di San Rocco, ha pronunciato un’«omelia anti-migranti». Questo stando ai media. Sì, perché in realtà il sacerdote, consapevole di prendere una posizione scomoda e destinata a far rumore («voglio essere polemico»), non ha tuonato contro i migranti tout court, limitandosi a fare un accenno a «persone che hanno telefonini o catenine e catene al collo e che dicono di venire dalle persecuzioni» ed esortando tutti a ricordarsi dei poveri che abbiamo accanto, nel nostro stesso paese o quartiere, che mai si guadagnano le prime pagine o le parole dei leader europei. Un ragionamento che si può giudicare inopportuno e che naturalmente si può rigettare: ma parlare di «omelia anti-migranti», ecco, è un tantino eccessivo.

Ciò nonostante, don Donato è finito nel mirino dei vari Enrico Mentana e la stessa diocesi l’ha scaricato, con monsignor Gerardo Antonazzo, vescovo di Sora, che ha parlato di «discutibili scelte personali». Ora, senza voler elevare questo parroco a martire, non si può non rimanere colpiti dalla solerzia con cui è stato ripreso, finendo in una polemica di livello nazionale. Una constatazione cui ne affianchiamo un’altra: sarebbe bello che tutte le volte che certi sacerdoti scivolano in esternazioni non «discutibili», ma proprio contrarie anzi opposte al magistero – pensiamo ad uscite permissive nei confronti della morale, a strambe rivisitazioni della storia di Gesù, elevato ora ad hippie ora a migrante ante litteram, fino a ammiccamenti verso le rivendicazioni Lgbt (tutte cose che si ascoltano con preoccupante frequenza) -, ebbene sarebbe bello, dicevamo, che tutto ciò destasse analoga indignazione.

Invece non succede. Al contrario accade che si possa osannare l’abortista Marco Pannella, far affrescare chiese con personaggi Lgbt, farsi immortalare sorridenti con esponenti di Arcigay, dare insomma pubblico scandalo si sarebbe detto una volta, e passare come pastori trendy, aperti, dialoganti. Ma se si mette in discussione il vangelo immigrazionista – ossia la tesi secondo cui chi viene traghettato in Italia dalle Ong è ipso facto vittima innocente delle peggiori crudeltà, se non già in odore di santità -, ecco, se lo si fa son guai. Il che pone tutta una serie di dubbi. Per esempio, il Catechismo della Chiesa cattolica, che stabilisce per gli stranieri non la possibilità bensì il preciso dovere di «rispettare con riconoscenza il patrimonio materiale e spirituale del paese che lo ospita, di obbedire alle sue leggi, di contribuire ai suoi oneri» (CCC, 2241), come lo si deve intendere, come un testo viziato da sovranismo?

E san Daniele Comboni, che chiedeva di «salvare l’Africa con l’Africa» – tanto da scriverci pure un apposito piano e da presentarlo, nel 1864, al Prefetto di Propaganda Fide, il cardinale Alessandro Barnabò -, può essere ancora citato o meglio di no per non legittimare il triviale «aiutiamoli a casa loro»? E il cardinale Giacomo Biffi che, a proposito di accoglienza di immigrati, spiegava che «in una prospettiva realistica, andrebbero preferite (a parità di condizioni, soprattutto per quel che si riferisce all’onestà delle intenzioni e al corretto comportamento) le popolazioni cattoliche o almeno cristiane» (30.9.2000)? E’ ancora considerabile un autore degno o meglio dedicarsi, da cristiani, alla lettura dei Saviano e delle Murgia? Si chiede tutto ciò, chiaramente, non per negare l’importanza dell’accoglienza del prossimo o dello straniero in quanto tale, ci mancherebbe, ma solo per capire se il vangelo immigrazionista sia ancora criticabile oppure se, come ultimamente pare, sia ormai da preferirsi all’originale.

Giuliano Guzzo

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