Più una università è importante, più rischia di essere depensante. Non è un’esagerazione ma, purtroppo, un fatto. Non si spiegherebbe diversamente il caso di Cambridge, in teoria una delle migliori università del pianeta, in pratica, ormai, un tempio del politicamente corretto, dove i docenti sono accettati solo se allineati. Ne sa qualcosa Noah Carl, a cui tempo fa il prestigioso ateneo – in risposta a 300 accademici che ne chiedevano la testa – ha revocato l’incarico. La sua colpa? Fare ricerca sulla razionalità delle paure dell’immigrazione. Non è andata meglio a Jordan Peterson, accademico la cui nomina nella celebre università è saltata – ancora su pressioni progressiste – in quanto «islamofobo» e pronto a parlare della Bibbia e in particolare dell’Esodo, che quelle parti devono considerare roba da fessacchiotti.

Un anno fa era pure circolata l’idea di sostituire gli autori bianchi con quelli neri per «decolonizzare» i corsi. A marzo invece dalle parole si è passati ai fatti, rimuovendo una famosa campana esposta al St Catharine’s College di Cambridge nel dubbio che potesse essere stata impiegata in una piantagione di schiavi. Morale della favola, una delle principali università del mondo si trova oggi stretta nella morsa di una «ideologia disastrosamente mal concepita», per dirla con il Daily Telegraph. Ne consegue che, se una volta a chi si formava in certi atenei c’era da far i complimenti per l’intelligenza, oggi sono più opportune le condoglianze per l’intelletto. Il punto è che questo virus non interessa solo Cambridge, anzi. Con il risultato che il bivio per i diplomati, di questo passo, non sarà più tra laurea e lavoro, ma tra laurea e libertà.

Giuliano Guzzo

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