“Ma che esistenza è, quella attaccata alle macchine? Mica è vita. E’ prigionia”. Quante volte abbiamo sentito ripetere questi slogan dai fautori dell’eutanasia? Bene, se abbiamo abbiamo avuto Stephen William Hawking (1942-2018) fino ad oggi – se la Scienza lo ha avuto fino ad oggi -, è perché una donna ha pensato che, anche in condizioni difficili, la vita vada sostenuta. E’ stato lo stesso Hawking a raccontare quell’episodio. Correva l’anno 1985: «Ero a Ginevra, in coma farmaceutico per provare a curare una polmonite, figlia della atrofia muscolare progressiva che mi ha ridotto in carrozzella. I medici pensavano che ci fosse poco da fare. E così hanno offerto alla mia prima moglie, Jane Wilde, la possibilità di farla finita».

Bene, la signora Wide disse no. Un no secco. Volle a tutti i costi che il marito tornasse a Cambridge, dove gli fu praticata un’incisione in gola che gli tolse per sempre la possibilità di parlare. «Ma mi ha fatto guarire», è stato il commento di Hawking. Quel no della moglie – che oggi verrebbe presentato come un sì all’accanimento terapeutico – quindi fu, come scrisse pure l’insospettabile Repubblica, una «fortuna per la scienza». Perché anche in uno stato certamente drammatico, quell’uomo aveva ancora molto da dire e da dare. A partire da una lezione non universitaria, ma umana: anche se precaria, anche se complicata, anche se molti dicono che al posto tuo non ce la farebbero, la vita è sempre vita. Sempre, fino all’ultimo.

Giuliano Guzzo

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