E’ tempo, negli Stati Uniti, di rimozione di statue di generali e soldati schiavisti. Un fenomeno che sta infiammando l’estate statunitense, arroventatasi dopo che in Virginia, a Charlottesville, pochi giorni fa, una manifestante è morta – e 30 sono rimasti feriti – a causa di un’auto lanciata contro un corteo antirazzista, e dopo alcuni disordini e manifestazioni di suprematisti bianchi. Di qui la furia contro i monumenti di figure riconducibili allo schiavismo, furia sfociata alcune ore fa, a Durham, in North Carolina, nell’abbattimento di una statua di un soldato sudista.

Ora, dispiace sinceramente disturbare cotanto ritrovato orgoglio antischiavista da parte – serve dirlo? – del mondo progressista, ma c’è da sperare che i nuovi paladini dell’uguaglianza non proseguano nella loro opera di rimozione di tutto ciò che, negli Usa, rimanda al passato razzista e schiavista, appunto; se non altro perché, se lo facessero, dovrebbero far sparire molto più di qualche statua, scagliandosi, per esempio, contro tutto ciò che ricorda la figura nientemeno che di Abraham Lincoln (1809-1865).

Perché affermo questo? Semplice, perché il mitico presidente – anche se non tutti lo sanno, evidentemente – non solo fu un consapevole e orgoglioso razzista («Sono favorevole al ruolo di superiorità che deve svolgere la razza a cui appartengo. Non ho mai detto il contrario», disse pubblicamente nell’agosto del 1858), ma tentò pure – dimostrando, è il caso di dirlo, un debole per il mercato schiavista – di fondare, senza successo, una colonia in quel di Haiti.

E che dire – continuando – di un’altra figura leggendaria, quel George Washington (1732-1799), il quale nella sua tenuta di 8.000 acri, in Virginia, faceva lavorare 300 schiavi che gli garantivano un reddito pari al 2% dell’intero Pil della giovane nazione americana? Le anime belle del progressismo faranno sparire tutte le banconote da 1 dollaro oppure permetteranno alla gloria di questo schiavista di perpeturarsi? Chissà. Di certo, c’è da sperare che la lotta alla memoria degli schiavisti non giunga in Europa.

Altrimenti, a farne le spese, sarebbe la memoria di molte figure leggendarie se non venerate. A partire da quella di un certo Napoleone Bonaparte (1769-1821), il quale nel 1802 pensò bene, dopo che era stata soppressa, di reintrodurre nelle colonie francesi la schiavitù; fino a Voltaire (1694-1778), “il padre della tolleranza”, il quale sprezzantemente riteneva l’uomo nero «un animale che ha lana sulla testa, cammina su due zampe» che «è quasi tanto pratico quanto una scimmia» (Trattato di Metafisica, 1978, p. 63).

Neppure il nostro Giuseppe Garibaldi (1807-1882) uscirebbe bene da una seria rivisitazione storica sull’argomento in questione poiché, celebrato come modello e presente in innumerevoli vie e monumenti d’Italia, fu in realtà, fra le altre cose, proprio un trafficante di schiavi, ed ebbe una vita talmente controversa che, per scrivere la sua storia fino a conferirgli parvenza eroica, Cavour (1810-1861) convocò ben quattro scrittori, tra cui Alexander Dumas (1830-1870).

Ma il vero motivo per cui, sono pronto a scommettere, la lotta contro la memoria schiavista non durerà a lungo, sta nel fatto che se così fosse si sarebbe costretti a riconoscere che – in controtendenza a Washington, Lincoln, Voltaire e tutti gli altri – tra i primi a condannare la schiavitù vi furono Paolo IV, nel 1537, Pio V, nel 1568, e Urbano VIII, il quale nel 1639 tuonò contro quello che definì «abominevole commercio di uomini».

Papi dunque. E, ancora prima di essi, svariati secoli prima, fu il Nuovo Testamento a presentare la condanna paolina dei «mercanti di uomini» (1Tm 1,10). Ora, ve li vedete i cari progressisti riconoscere alla Chiesa Cattolica, mediante il primato alla lotta alla schiavitù (a chi volesse saperne di più consiglio l’eccellente e approfondito studio La Chiesa e gli schiavi, EDB 2016, di Bleggi R. e Zannini F.), meriti di progresso civile, quello vero? Certo che no. Ecco perché, abbattuta insensatamente qualche statua e rimossa qualche targa, c’è da aspettarsi che i progressisti ora indignati torneranno presto nel loro comodo letargo.

Giuliano Guzzo

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