Il gender sarà pure fissazione da oscurantisti, ma non passa ormai quasi giorno che i grandi media non si prodighino – dando oggettivamente prova di solerzia degna di miglior causa – per ricordarci che l’identità sessuale è socialmente costruita, indipendente dal sesso biologico, in divenire. Dopo che il 1 aprile (ma purtroppo non era un pesce) il Corriere.it segnalava, non si sa bene poggiandosi a quali evidenze, che il cervello «non ha sesso», ieri è stato il turno de La Stampa, che ha dato spazio al caso dei bambini «libellula» prigionieri di un corpo estraneo, cioè quelli che pur nascendo maschi o femmine tali non si riconoscono.

Un argomento assai delicato, come ciascuno ben comprende, che però il celebre quotidiano torinese ha affrontato, chissà come mai, con la grazia di un ippopotamo in una cristalleria, mescolando cioè dati veri a informazioni poco precise. Infatti, se da un lato si è correttamente evidenziato come i bambini «libellula» o gender fluid siano lo 0,3 o al massimo l’1% del totale, dall’altro si è tirata maldestramente in ballo la storia di Camilla, la «mamma che ha aperto un blog per raccontare la vita del suo bambino a cui non piacciono super eroi e macchine ma bambole e il colore rosa».

Ora, con tutto il rispetto per la signora, è bene chiarire un aspetto – cosa che La Stampa si guarda bene dal fare -, e cioè che se a un maschio i super eroi piacciono meno delle bambole non significa automaticamente che trattasi di bambino «libellula». Proprio per niente. La disforia di genere, infatti, è qualcosa di assai diverso e complesso dal semplice non gradimento dei giocattoli o dei colori sessualmente tipizzati. Inoltre c’è un dato significativo che il quotidiano torinese dà a metà quando, riportando le parole di una psicologa, scrive che «nei bambini (under 12) che mostrano comportamenti cross-gender solo il 15 per cento li mostrerà ancora in età adolescenziale»

Il dato parzialmente omesso è che la percentuale di giovani che durante la pubertà supera il proprio disagio sull’identità di genere risulta ancora superiore a quella poc’anzi ricordata e, soprattutto, vede fino al 98% dei ragazzini e l’88% delle ragazzine riconoscersi nel loro sesso biologico (cfr. American Psychiatric Association: Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, 2013, p. 455). Significa che, in una scuola mista, mediamente solo il 7% dell’1% dei soggetti potrebbe essere durevolmente interessato da disturbi dell’identità di genere. Ma a La Stampa tutto ciò pare importi poco, perché se «il tema “gender” trova in assoluto molti ostacoli», quando viene proposto nelle scuole, la responsabilità è delle «associazioni cattoliche» che «fanno le barricate».

Chiaro, no? Per il quotidiano torinese, in nome del progresso, si dovrebbe parlare spensieratamente nelle scuole di una questione delicatissima – non per nulla inserita nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali – e che interessa nel tempo (al massimo) 7 giovanissimi su 10.000, magari, perché no, contribuendo a seminare interrogativi nelle fanciulle che semplicemente alla bambola preferiscono il pallone da calcio e nei maschietti che non disdegnano il colore rosa, che son ben più – c’è da scommettere – di 7 su 10.000. E per chi osa trovare tutto questo vagamente assurdo (anche se questo su La Stampa non lo scrivono, ma forse lo pensano) giù accuse di bigottismo, oscurantismo, omofobia, intolleranza. Viva l’originalità, insomma.

Giuliano Guzzo

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