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Che differenza c’è fra un’inchiesta giornalistica e uno spot propagandistico? Apparentemente sono cose diversissime come diversissime, si sa, sono l’informazione e l’ideologia. Vi sono tuttavia casi nei quali la propaganda, per apparire autorevole – ed essere quindi più efficace -, assume le mendaci sembianze dell’inchiesta giornalistica. Un esempio lampante è quello delle due intere pagine – la 24 e la 25 – con cui il Corriere della Sera di ieri, proponendo ai suoi lettori formalmente un’inchiesta, ha in realtà confezionato un formidabile spot a favore dell’educazione sessuale obbligatoria nelle scuole. La linea che su questo delicato argomento il primo quotidiano d’Italia sposa senza esitazioni è tutta già condensata nelle prime righe dell’articolo: «La scuola dovrebbe occuparsene di più. Parlare di amore, relazioni, sesso. Dei corpi che crescono e cambiano, delle emozioni che si agitano, come stagioni impazzite, dentro cuori impreparati. E invece, dopo 25 anni di proposte, non c’è una legge che istituisca corsi obbligatori» (p. 24). Ora, al di là della dubbia qualità poetica di certe espressioni – «emozioni che si agitano, come stagioni impazzite, dentro cuori impreparati» -, il senso del discorso è fin troppo chiaro: urge una legge che introduca «corsi obbligatori» nelle scuole nei quali si parli «amore, relazioni, sesso».

A suffrago della sua tesi, il Corriere presenta da un lato la solita carrellata di pareri più o meno autorevoli e più o meno generici e, dall’altro, mostra ai lettori un’immagine della situazione europea mettendo in luce il fatto che diversi Paesi hanno già provveduto ad introdurre quell’educazione sessuale obbligatoria rispetto alla quale «l’Italia resta, sola in Europa, senza un quadro normativo di riferimento» (p.25). Sopra l’articolo, la foto di due ragazzi che si fissano: quello a sinistra è un ragazzo, mentre il sesso del soggetto a destra, dai capelli corti e dall’aspetto androgino, non è chiaro: un piccolo capolavoro di propaganda, insomma, per scardinare pure visivamente l’idea che l’amore possa o debba essere fra maschio e femmina. Torniamo però a quanto afferma la discutibile inchiesta, e cioè l’assenza di una legge che in Italia istituisca a scuola «corsi obbligatori» nei quali si parli «amore, relazioni, sesso»: cosa vera. Benché se ne parli dal tempo (la prima proposta di legge risale al 1975 ed era del Partito Comunista), il nostro Paese non ha una norma in tal senso. C’è però da chiedersi – dilemma che il Corriere neppure si pone – se ciò sia un male o sia un bene. Il solo modo per chiarire questo dubbio evitando riferimenti confessionali o morali (che pure sono di massima importanza, considerando il primato educativo della famiglia), è guardare alla situazione europea per confrontarla con quella italiana.

Ora, in teoria i Paesi nei quali l’educazione sessuale nelle scuole è prevista da tempo dovrebbero mostrare un quadro ben più confortante di quello dell’arretrata Italia: meno malattie sessualmente trasmissibili, meno gravidanze fra le giovanissime, meno episodi di bullismo, meno casi di “omofobia”. E’ così? Prima di vederlo, occorre prima intendersi su quale educazione sessuale vada oggi per la maggiore in Europa. La illustra bene Il bambino denudato (Fede&Cultura, 2016), il nuovo libro dello psicologo-psicoterapeuta Gilberto Gobbi – testo di cui consiglio a genitori ed educatori l’acquisto – nel quale viene esaminata l’educazione sessuale secondo le schede dello Standard/OMS. Trattasi di schede diffuse dall’Ufficio Regionale per l’Europa dell’OMS nel 2010, dopo averle commissionate al BZga di Colonia, Centro già noto per le posizioni abortiste, e che – come ben spiega Gobbi nel suo libro – apparentemente promuovono l’educazione sessuale olistica, cioè onnicomprensiva di tutti gli aspetti e le implicazioni della sessualità umana, ma in realtà considerano «solo alcuni aspetti della persona, quelli fisici e psicologico» mentre la dimensione spirituale e religiosa non viene considerata «neppure come possibilità» (pp.15-38). Morale: più che educazione sessuale, è apologia della contraccezione e del piacere fine a se stesso.

Chiarito quindi quale tipo di (dis)educazione sessuale verosimilmente si vorrebbe introdurre anche in Italia, passiamo ora a considerare i “successi” conseguiti dai Paesi ritenuti più evoluti dell’Italia. Successi che, francamente, diventano difficili da apprezzare. Infatti l’Europa da cui dovrebbe prendere esempio il nostro Paese è quella nella quale le malattie sessualmente trasmissibili sono in aumento; in particolare – segnala un rapporto dell’European center for diseases control – è allarme clamidia: peccato che oltre l’80% di queste infezioni si concentri in appena quattro Paesi: Svezia, Norvegia, Gran Bretagna e Danimarca. Trattasi non solo di Paesi dove l’educazione sessuale scolastica è diffusa, ma fra i quali c’è la Svezia: il primo Paese europeo a rendere obbligatorio il suo insegnamento nel lontano 1956, sin dalle elementari. Come mai allora questa situazione? Sarebbe bello che il Corriere, abbandonando l’attuale parzialità, realizzasse un’inchiesta su questo. Allo stesso tempo, sarebbe bello che i giornalisti del primo quotidiano d’Italia – e con loro quanti credono opportuna l’educazione sessuale nelle scuole, fra i quali vi sono intellettuali notevoli, come Rocco Siffredi – cercassero di capire come mai i Paesi nei quali questa è diffusa da molti anni sono pure quelli nei quali le gravidanze fra le giovanissime sono più diffuse.

Avete letto bene: considerando la situazione di Paesi nei quali l’educazione sessuale è insegnata nelle scuole – in Francia, per esempio, è inserita nei programmi scolastici fin dal 1973 – si vede come in questi le ragazze abortiscano fino a quattro volte di più rispetto alle altre, fra cui le Italiane. L’educazione sessuale non c’entra, dirà qualcuno? Strano, perché vi sono studi che suggeriscono come programmi scolastici volti a diffondere nei giovani la contraccezione abbiano ottenuto un aumento del numero delle gravidanze. «Quali sono – si chiede dunque il medico e bioeticista Renzo Puccetti – le prove a sostegno del fatto che il più vasto ricorso alla contraccezione ridurrebbe il numero di aborti? La risposta della scienza è: nessuna» (Vita e morte a duello, Fede&Cultura 2014, p.80). Se l’educazione sessuale nelle scuole è così inefficace – si penserà – almeno sarà utile come forma d’incentivo al rispetto dell’altro, contro il bullismo. Bella ipotesi: peccato non sia – neppure questa – suffragata da dati: infatti in Italia, che dovrebbe essere messa malissimo da questo punto di vista, appena il 5% dei giovani fra gli 11 ed i 15 anni risulta vittima di accertati episodi di bullismo: in pratica siamo a livelli svedesi e messi molto meglio di Spagna, Germania e Austria (AA.VV. (2015) Skills for Social Progress. The Power of Social and Emotional Skills. «Organisation for Economic Co-operation and Development»: p.20).

Dulcis in fundo, neppure considerando l'”omofobia” la “medievale” Italia sfigura: i dati dell’European Union Agency for Fundamental Rights (2012) basati sulla percentuale di cittadini LGBT dichiaratisi vittime di violenza o minacce negli ultimi cinque anni, infatti, vedono la Gran Bretagna (31%), il Belgio (27%), la Francia (26%), la Danimarca (23%) e la Germania (22%) – Paesi osannati come fari del progresso – messi peggio di noi (19%). Un dato, questo, che  – sommato a gli altri –  non può non far scaturire una domanda: perché? Come mai Paesi che da decenni investono fiumi di danaro sull’educazione sessuale scolastica sono nella situazione dell’Italia (raramente) o in una molto più drammatica (assai spesso)? I motivi son almeno tre. Il primo riguarda il fatto che un’educazione sessuale disgiunta dai valori della responsabilità e della fedeltà di coppia, semplicemente, educazione non è e non modifica i comportamenti; la seconda ragione sta nella cosiddetta “compensazione del rischio”, meccanismo in base al quale, credendosi al riparo da pericoli perché informati su rischi e rimedi (contraccezione, pillola del giorno dopo, ecc.), gli individui tendono a condotte più rischiose di quelle altrimenti adottate, peggiorando la situazione. Il terzo – il più importante – riguarda il primato educativo della famiglia: irrisa e dileggiata, la “cellula fondamentale della società” è ancora, per quanto in crisi, la migliore agenzia educativa. In Italia, in particolare, la famiglia conta ancora: e si vede.

La verità, detto ciò, è che educare è un mestiere difficile in primo luogo perché non frazionabile: un giovane non ha bisogno di uno che lo educhi al senso civico, uno che lo introduca al rispetto del prossimo, un altro ancora che gli sveli i segreti di «amore, relazioni, sesso». No: ha bisogno di qualcuno che lo educhi con la pazienza che in fondo solo un genitore – o un educatore che comprenda appieno il senso della sua missione – può avere. Inoltre, con la pazienza (e la conoscenza!) è fondamentale un altro aspetto: la credibilità. Il processo educativo, infatti, non si basa solo su dei contenuti ma anche – se non soprattutto – su una testimonianza: io non ascolto te solo perché hai qualcosa da dirmi, ma anche perché ci credi e lo dimostri; perché sei un esempio, un maestro. Ecco perché – con tutto il rispetto per il mondo scolastico – pretendere di scorporare un tema cruciale quale quello della sessualità  sia da un disegno educativo più ampio sia dalla credibilità di un educatore che sia pure testimone, lasciando così tutto e solo nelle mani di “esperti”, è la premessa ad un fallimento: perché in questo modo non si insegna nulla, si veicolano solo contenuti fintamente neutrali e si considerano i ragazzi come imbuti nei quali versare nozioni precotte, che tutto trasmettono fuorché la bellezza di vivere il regalo della sessualità nei confini della responsabilità e del vero Amore.

Giuliano Guzzo

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