abortion

I cattolici e i non credenti italiani affezionati alla ragione, a trentasette anni dall’approvazione della legge 194/’78, hanno ancora parole contro l’aborto legale? Il contesto attuale sembrerebbe escluderlo: non molti, oggi, rifletteranno su questa ricorrenza tristissima, pochi la giudicheranno tale e quasi nessuno avrà il coraggio di augurarsi che sia l’ultima. Più che l’indignazione, nonostante le apprezzabili iniziative pro-life, a livello generale prevale dunque la volontà neppure di parlare dell’aborto, argomento ritenuto privato e triste. E poi – è la conclusione di tanti – c’è già una legge. Ecco che allora la legge 194/’78, oltre che corresponsabile della morte di milioni di italiani, si conferma micidiale sonnifero delle coscienze. Non è un caso che a parlare della perdita volontaria di un figlio come di un dramma, oggi, vi siano sia parecchi che si dichiarano contrari alla pratica abortiva, sia quanti sono per la libertà di scelta: questo perché, com’è evidente, la dimensione oggettivamente delittuosa dell’aborto non scandalizza più. E non scandalizza più, dicevamo, perché la legge 194/’78 molti figli li ha eliminati e gli altri li ha cresciuti educandoli all’idea che se l’aborto è brutto, l’aborto illegale è peggio.

L’obiezione a simili considerazioni, di solito, verte sull’importanza prioritaria dell’evitare l’aborto. La Legge non obbliga ad abortire – si osserva – quindi un lavoro culturale è comunque possibile. Ora, questo non solo è vero, ma risulta pure doveroso. I cattolici e i non credenti italiani affezionati alla ragione debbono però rendersi conto, sulla scorta di quanto poc’anzi sottolineato, che la legge 194/’78 svolge anche un lavoro culturale. Chi ha a cuore la difesa della vita deve smetterla di credere di giocare in campo neutro o persino di giocare in casa, perché così non è: per ogni convegno, dibattito o pubblicazione contraria all’aborto, infatti, a controbattere è la voce più autorevole – quella dell’ordinamento giuridico – ed afferma l’esatto opposto, e cioè che l’aborto è qualcosa su cui si può scegliere. E’ una realtà amara, ma è la realtà. Intendiamoci: questo non rende inutile ogni convegno, dibattito o pubblicazione contraria all’aborto. Anzi. Nella misura in cui si perde però di vista il fatto che il primo avversario dei diritti del figlio concepito, oggi, non è il partito radicale ma lo Stato, si rischia di combattere una battaglia immaginaria e di presentarsi nella trincea alla quale altri mirano con fucili di precisione armati solo di fionda e buone intenzioni.

Una simile consapevolezza, tuttavia, non deve alimentare l’illusione di rivoluzioni ora non praticabili né generare sensi di colpa: nessuno rimprovererà agli italiani di buona volontà del 2015 o rimprovererà alla mia generazione di non essere riuscita ad abrogare la legge 194/’78. Tuttavia, se l’impossibile non realizzato non comporta colpevolezza, il dovere non onorato implica pesanti responsabilità. E il primo dovere di chi si batte per la vita pensando non solo ai singoli e pur importantissimi casi – per ogni bambino salvato è salva anche una mamma, spesso pure una famiglia -, ma al contesto generale è rendersi conto che la cultura della morte mai si sarebbe diffusa, non almeno nelle dimensioni attuali, senza il megafono normativo, da condannare perciò senza esitazione. A questo proposito, spesso si ricorda come Giorgio La Pira abbia definito la legge 194 «integralmente iniqua», ma quasi mai si evidenzia un fatto: la definizione La Pira la diede nel 1977 nei telegrammi ai segretari di partito e alle maggiori autorità supplicando di non approvare quel testo. Il celebre politico democristiano poi morì nel novembre di quell’anno, cioè prima dell’entrata in vigore della 194, che com’è noto è datata 22 maggio 1978.

Dunque sin dall’inizio, prima ancora che divenisse a tutti gli effetti Legge dello Stato c’era già, in coloro che avevano sufficiente senso critico, la consapevolezza che la 194 sarebbe stata «integralmente iniqua». Il paradosso è che oggi, trentasette anni ma, soprattutto, sei milioni di morti dopo – quindi alla luce di elementi che avrebbero dovuto ampiamente rafforzarla -, quella stessa consapevolezza, nella società italiana, sembra offuscarsi. Col risultato che solo una parte ha ancora il coraggio di denunciare quanto sia intollerabile la situazione. Solo un piccolo gregge si ribella. Solo pochi si ritrovano così a difendere un valore di tutti. La storia però ci insegna che nessuna minoranza è così insignificante da non poter diventare, con il tempo, maggioranza. La differenza infatti non sta nei numeri, ma nell’autenticità di ciò in cui si crede. E si dà il caso che, nonostante le tante sciocchezze dette e scritte sull’autodeterminazione assoluta, nulla potrà mai eguagliare l’incanto che accompagna la venuta al mondo di ogni bambino. Nulla, soprattutto, sarà mai più vero della gioia di chi assiste a quel miracolo chiamando la Legge che lo avrebbe potuto impedire con il suo vero nome: «integralmente iniqua».