L’entità del fenomeno del divorzio, in Italia, è ormai tale da sconsigliarci una lettura acritica dei dati forniti in queste ore dall’Istat. Dati che in sostanza dicono questo: la famiglia italiana é in crisi profonda. Per rendere l’idea, «nel 2010 le separazioni sono state 88.191 e i divorzi 54.160» facendo segnare, rispetto all’anno precedente, rispettivamente un incremento «del 2,6%» e un «decremento pari a 0,5%» [1]. Ora, al di là delle peculiarità dei dati regionali e territoriali, sono due gli aspetti che meritano di essere considerati con attenzione.
Il primo riguarda il fatto che divorziano di più quanti hanno un titolo di studio più alto, tanto è vero che la stessa Istat, in un altro rapporto, afferma chiaramente che «a mantenere bassi i tassi di instabilità complessivi rispetto alla maggior parte dei paesi europei» è la «scarsa diffusione delle separazioni nel segmento della popolazione con il livello di istruzione più basso» [2].
Dato, questo, per molti versi assai curioso e che può avere due spiegazioni, non necessariamente alternative ma verosimilmente complementari; la prima è che chi ha un titolo di studio più alto, in genere, gode di una retribuzione lavorativa maggiore e quindi considera più praticabile, rispetto a chi fatica a sbarcare il lunario, l’ipotesi di rompere la vita matrimoniale per farsene una successiva; una seconda spiegazione del maggior numero di divorzi di coloro tra coloro hanno un titolo di studio più alto potrebbe essere che costoro – avendo dedicato molto più tempo, rispetto ad altri, alla loro formazione culturale e professionale – possano riconoscere sì la famiglia come un valore, ma in misura attenuata rispetto a coloro che, essendosi sposati prima (dal momento che è più che naturale che chi ha un titolo di studio inferiore tenda a “metter su famiglia” prima), guardano al loro nucleo familiare forse con più attaccamento.
Un altro aspetto decisamente interessante che non può – a mio avviso – essere dissociato da una lettura attenta della crisi della famiglia, è l’aumento del numero delle convivenze prematrimoniali. Lo afferma la stessa Istat in un report diffuso lo scorso settembre: «Il fenomeno è cresciuto nel tempo e, nelle coorti tra il 2004 e il 2009, ha raggiunto il 33% per i primi matrimoni e più del 70% per gli altri […] con il passare degli anni è cresciuto il modello convivenza come periodo di prova dell’unione. È raddoppiata, infatti, la quota di coloro che erano indecisi se sposarsi o no (dal 18% al 36,7%) e triplicata quella che non aveva previsto di sposarsi (dal 5,3% al 17,6%)»[3].
Dunque da noi si divorzia di più proprio in un periodo che ha visto «con il passare degli anni» la crescita del «modello convivenza come periodo di prova dell’unione». Un caso? Non si direbbe. Intanto perché esiste letteratura scientifica che indica come chi convive prima del matrimonio, in effetti, abbia più probabilità di divorziare [4]. Si tratta di una tendenza ben nota, anche su scala europea [5]. Attenzione, però: questo non significa automaticamente che chi esperimenta la convivenza «come periodo di prova dell’unione» considera l’ipotesi matrimoniale poco importante [6].
Il punto – così spesso non compreso – è che la convivenza, anche quella «come periodo di prova dell’unione», mina il matrimonio alle fondamenta. E questo principalmente per due ragioni. Anzitutto perché lo “svuota” di un elemento caratteristico della vita coniugale rappresentato, per l’appunto, dalla coabitazione. Ne consegue che quando ci si sposa dopo una convivenza, magari di alcuni anni, per forza di cose si fatichi ad assaporare quello slancio ideale tipico della promessa matrimoniale, che tende così a ridursi alla dimensione rituale, per non dire burocratica. Un secondo elemento di minaccia alla salute delle vita di coppia sta nel fatto che, convivendo, gli innamorati scoprono di colpo la complessità – e anche la difficoltà – della vita insieme senza però essere adeguati, come invece possono essere coloro che si sposano, per fronteggiarla.
Senza dimenticare un aspetto che comunque merita attenzione: molte coppie convivono perché in difficoltà (spesso economica) dinnanzi all’ipotesi di sposarsi. Anche se si tratta di una difficoltà talora più percepita che reale – come dimostra la frequenza di matrimoni che caratterizzava il nostro Paese in epoche e contesti ben più ostili di quello attuale – è indubbia la necessità di procedere, a livello istituzionale, a politiche a favore della famiglia e del matrimonio che sono pressoché assenti. Intendiamoci: le politiche per la famiglia non sono sufficienti, tanto più nel breve periodo, ad invertire tendenze decennali. Però rappresentano un segnale importante. Che deve essere dato al più presto, se non vogliamo che i report Istat sulla famiglia si trasformino – più di quando già non siano oggi – in dei referti autoptici.
Note: [1] Cfr. http://www.istat.it/it/archivio/66665; [2] Istat, Evoluzione e nuove tendenze dell’instabilità coniugale, Roma, Istat, Argomenti, No. 34, 2008; [3] Istat, Anno 2009. Come cambiano le forme familiari. 15.09.2011; [4] Si veda per esempio Rhoades G. – Scott S. – Markman H. (2009) The pre-engagement cohabitation effect: A replication and extension of previous findings. «Journal of Family Psychology», 23(1):107-111; [5] Cfr. Blangiardo G.C. Analisi demografica delle «nuove» forme familiari e delle forme di convivenza in Italia e in Europa in Donati P. (a cura di) Identità e varietà dell’essere famiglia, San Paolo, Milano 2001, pp. 155-157; [6] Belletti F. – Boffi P. – Pennati A. Convivenze all’italiana. Motivazioni, caratteristiche e vita quotidiana delle coppie di fatto, Paoline, Milano 2007, p. 41.