
Non esageriamo. Per quanto abbia senza dubbio avuto a suo modo coraggio nel rifiutarsi d’intonare Bella Ciao – l’inno della Resistenza partigiana e della lotta al fascismo – a El Hormiguero, un popolare quiz della tv spagnola, Laura Pausini non è un simbolo della libertà di pensiero. Il suo gesto, infatti, ha sì suscitato polemiche, ma la cantante resta comunque una paladina della cultura dominante.
Come dimenticare, infatti, Pausini pro Lgbt («Io a nozze? Prima deve poterlo fare la mia amica lesbica», disse nel novembre 2015) contro il Vaticano («per fortuna la gente continuerà ad amarsi, pur senza la “benedizione” del Vaticano», ha detto nel marzo 2021) o fotografata con membri del regime cubano, tanto da finire nel maggio di quest’anno per esser bollata come «comunista e castrista» da alcuni esuli.
In realtà, spulciando le vecchie agenzie si trova pure una Pausini pro life («sono cattolica praticante e per questo non abortirò mai»: Adnkronos, 24.9.1996), ma resta comunque esagerato far dell’artista un’icona contro il politicamente corretto per il semplice fatto che, precedenti alla mano, non lo è. Tuttavia, ecco il punto, il suo diniego ad intonare Bella Ciao – con annesse polemiche – contiene un indubbio insegnamento.
L’insegnamento, o il promemoria, è quello del prezzo che si paga per una «canzone diversa», se si prende cioè una posizione non allineata e difforme. Il prezzo è quello di attacchi, insulti e condanne che – per quanto verbali e virtuali – sono tutt’altro che leggere. In altre parole, la libertà costa. Forse, pure in questi tempi, più ancora del gas e della luce, ma è un costo da sostenere. Perché una voce libera può ancora fare la differenza mentre una conforme, ormai, fa solo numero (foto: fonte)
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Solo un appunto: Bella ciao non è l’inno della resistenza partigiana: nessun partigiano l’ha mai cantata per il buon motivo che la canzone è stata fabbricata molto tempo dopo.
Va detto, a onor del vero, che detta canzone non esisteva ai tempi della resistenza, essendo un motivo risalente agli anni ’50 del secolo scorso. Checche’ se ne dica, e’ – a pieno titolo – una canzone politica divenuta simbolo della sinistra. Nel 1968, negli anni della “contestazione”, veniva intonata a gran voce dai cortei operai e studenteschi per protestare contro chi si riteneva essere l’oppressore delle istanze promosse. Ben ha fatto – la signora Pausini – a rivendicare la liberta’ di non cantarla.