Viva la mamma, finché si può dire senza che ti guardino storto. Finché non inventeranno altre leggi contro la discriminazione, dato che «mamma», si sa, è parola che discrimina, e alla grande, separando una donna da tutte le altre; finché Cecchi Paone – come ha già fatto con la famiglia – non stabilirà che «mamma» è una parola odiosa perché rende infelici tutti gli altr* – e finché un giudice non la penserà come Cecchi Paone; finché il termine non apparirà non proprio vietato ma, insomma, molto sconveniente, e secondo me non ci siamo lontani.

Se pensate esageri, ricordatevi che davano dell’esagerato pure ad Amintore Fanfani, che il 26 aprile 1974 ebbene a pronosticare: «Volete il divorzio? Allora dovete sapere che, dopo, verrà l’aborto. E dopo ancora, il matrimonio tra omosessuali». Ecco, visto un così clamoroso precedente – e siccome non m’interessa granché che mi si dia ragione tra mezzo secolo (so già, poco umilmente, d’averla) -, dico, anzi urlo ora «viva la mamma!», preparando la mia memoria difensiva per quando sarò chiamato a rispondere di tale esultanza, così vetusta, intollerante e patriarcale.

Siccome l’accusa, qualunque sarà – uteroinaffittofobia, magari –, verrà senz’altro dal Ministero dell’Amore, mi difenderò citando un poeta omosessuale, Pier Paolo Pasolini: «L’anima è in te, sei tu, ma tu/ sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù […] Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire/ Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…». Come noto, la poesia si chiama Supplica a mia madre, ma in Aula la presenterò come Supplica alla ragione: chissà, magari funziona. Intanto, approfitto ed invito ad approfittare di questa temporanea occasione per omaggiare colei che ci ha messi al mondo con infinito amore. Viva la mamma!

Giuliano Guzzo

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