C’è da esser sinceramente grati ad Alessandro Zan e ai promotori della legge contro l’omobitransfobia perché, grazie alla loro capacità di mobilitare capillarmente influencer e attori, cantanti e soubrette, nani e ballerine, ci offrono la possibilità di ripassare un tema sociologico di rilievo, che in un Paese normale avrebbe già dedicato un corso apposito nelle facoltà di Scienze della comunicazione: quello dell’Artista Unico. Chi è costui?

Semplice: l’Artista Unico è quello che oggi si fa foto con le mani pitturate in favore del ddl Zan, mentre ieri firmava appelli per i «porti aperti» contro Matteo Salvini e l’altro ieri sbottava contro Berlusconi. Si tratta insomma di uno con sempre una causa da sposare, ma non dipende dal suo pensiero: dipende dal momento. L’Artista Unico vive infatti sotto i riflettori: se gli togli telecamere e pubblicità, audience e follower, non lavora più. Si ferma, si affloscia.

La dipendenza dalla notorietà fa sì che l’Artista Unico – se non canta, non balla, non salta, non conduce, non recita o non sponsorizza qualcosa – abbia due possibilità: sposare la cultura dominante oppure tacere. Tertium non datur. Raramente, infatti, l’Artista Unico dice qualcosa. Prova ne sono le sue interviste, ossia un flusso di parole innocue, sterili, condite di narcisismo e divagazioni, prive di tesi forti, spesso proprio di tesi. Tuttavia, guai a pensar l’Artista Unico uomo senza qualità. Sarebbe imperdonabile.

In effetti, l’Artista Unico è il massimo specialista mondiale in una disciplina precisa, a suo modo sofisticata: lo slogan. Li conosce tutti. Si esprime quasi solo con quelli: «love is love», «la mia libertà finisce dove comincia la tua», «mi piace viaggiare», «evitiamo il ritorno al Medioevo», «lo Stato è laico», «sono un cittadino del mondo», «ho tanti progetti», «no al razzismo», «niente muri», «io sono per la libertà» e via pappagallando. Beninteso: l’ordine degli slogan non conta. L’importante è che la frittata resti quella.

Un’altra dote dell’Artista Unico è di essere un formidabile copione. Guarda quello che fanno i colleghi e si accoda: al volo. Non si pone cioè tante domande, come purtroppo neppure tanti di quanti lo idolatrano. Si capisce quindi come l’Artista Unico non sia affatto cattivo, anzi. È spassoso, divertente, talvolta un vero tenerone. Purtroppo per lui (e per noi), però, vive ostaggio della superficialità di un mondo, quello dei media, con pochi editori. Giganti che fanno il bello e il cattivo tempo, dettando la linea.

Quest’ultimo aspetto, e passiamo a concludere, deve far riflettere quanti non sono famosi e non lo diventeranno mai. Perché probabilmente non sono ricchi e senz’altro non sono celebrati come i loro beniamini, ma almeno sono liberi. Possono cioè – Facebook e Twitter permettendo, va da sé – postare e cinguettare davvero ciò in cui credono. Invece a tantissime celebrità questo è proibito, pena l’esilio dall’orbe mediatico. Da questo punto di vista, nulla è probabilmente sottile come il confine tra Artista Unico e artista finito.

Giuliano Guzzo

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