Con molta incredulità, debbo constatare come, a distanza di quasi dieci giorni dalla morte di Willy Monteiro Duarte,  il ventunenne ucciso lo scorso 6 settembre nel corso di una rissa notturna a Colleferro, dopo aver provato a difendere da un pestaggio un compagno di scuola, tiene banco sulla stampa e sui social – dove Fedez se la piglia con Giorgia Meloni – il dibattito sulla «cultura fascista» che avrebbe ispirato questo omicidio.

Ora, io sono in grande imbarazzo. Sì, perché se da un lato non provo alcuna particolare simpatia per il fascismo né per la figura di Benito Mussolini – il quale magari si sarà pure convertito all’ultimo, come ipotizza in un suo testo don Ennio Innocenti, ma fu e visse da fiero anticlericale -, dall’altro riconosco che, per parlare di «cultura fascista», è inevitabile riferirsi a paradigmi, volumi, autori.

Rispetto a questo, ecco, mi permetto di dubitare che gli autori del crimine di Colleferro abbiano la casa traboccante di testi di Marinetti, Gentile, Pirandello, Soffici, Evola, Pound o Jünger. Più in generale, mi permetto di dubitare che i coatti in parola abbiano, se non per noia, mai accostato qualche libro degno di qualche nota. E quindi, di che «cultura fascista» stiamo esattamente parlando, se è lecito nutrire la curiosità?

Delle due l’una: o attribuiamo al termine fascista il suo significato storico – parlando di «cultura fascista» con cognizione di causa -, oppure, virando verso un’accezione più ampia, dobbiamo includere non solo i responsabili della morte di Duarte, ma tutti i violenti sulla piazza, dai fenomeni dei centri sociali ai vandali che abbattono statue illudendosi di purificar la storia. Ma qualcosa mi dice che detta seconda eventualità piacerà già meno a Ferragnez e discepoli.

Giuliano Guzzo