Non capita a tutti di avere un grande maestro, figurarsi due. Sì, perché san Marco evangelista – che festeggiamo oggi – fu discepolo sia di san Paolo, che lo accompagnò nei suoi viaggi, sia del principe degli apostoli nonché primo papa, Pietro, che lo considerava come un figlio, tanto che in una sua lettera scrisse: «Vi saluta anche Marco, mio figlio». Proprio quando si trovava a Roma, Marco avrebbe redatto il suo vangelo, secondo la tradizione composto tra l’anno 40 e 60, quindi dopo quello di Matteo, e prima di quello di Luca e Giovanni.

Se consideriamo come l’evangelista – ebreo di origine e di natali benestanti, come suggerisce il doppio nome con cui viene ricordato nei vangeli (Marco, nome latino, e Giovanni, nome ebraico) – probabilmente non abbia mai conosciuto di persona Gesù, se ne ricava come il suo testo altro non sia che la fedele trascrizione della testimonianza di Pietro. Non a caso gli antichi agiografi cristiani, come Papia, definiscono Marco come «l’interprete di Pietro che ha messo per iscritto esattamente quello di cui si ricordava».

L’ultima notizia certa su Marco, però, la dà nel 66 san Paolo, quando, scrivendo a Timoteo dalla prigione romana, afferma: «Porta con te Marco. Posso bene aver bisogno dei suoi servizi». Poi le tracce sicure dell’evangelista si perdono e le ipotesi sulla sua sorte si moltiplicano. Con la conseguenza che «sulla sorte di Marco esistono due versioni: una che lo vuole morto sul suo letto, e un’altra che lo vede martirizzato il giorno di Pasqua in coincidenza con la festa di Serapide. Questa seconda versione è prevalente nella tradizione cristiana» (AA.VV. Il Libro dei Santi, Edizioni Messaggero, Padova 2007, p.427).

Oltre che patrono di segretari e interpreti – titolo guadagnato per il servizio al seguito di Pietro, di cui riportò le memorie in greco -, Marco è anche protettore dei veneti, con le sue reliquie custodite nella Basilica di Venezia. Ma com’è nato il suo legame col Veneto? Secondo una leggenda, due mercanti veneziani avrebbero ne portato il corpo in città nell’828. Un’altra ipotesi è quella secondo cui, mentre Marco navigava nei pressi dell’attuale laguna: «scoppiò una bufera che costrinse i naviganti ad approdare ad un isolotto. Si tramanda che qui Marco cadde in estasi e un Angelo gli profetizzò la costruzione di una città, dove il suo corpo avrebbe riposato» (Zerbini L. Il Grande Libro dei Santi, Barbera, Siena 2011, p.146).

Possiamo qui inoltre ricordare come sia dovuto proprio alla tradizione veneta il fatto che, dal 1260, san Marco sia rappresentato – com’è noto – sotto forma di leone alato. Una scelta evidentemente non causale bensì dall’alta carica simbolica, sia sotto il profilo politico sia sotto quello religioso, dato che il leone simboleggia la forza della parola del Santo, le ali l’elevazione spirituale e l’aureola ne indica la santità e la pietà religiosa.

Quel che è interessante ricordare, restando in tema, è il legame anche miracoloso tra Marco e Venezia. Stiamo parlando di quanto accadde nella celebre città veneta nel lontano 972 quando, in seguito ad una rivolta popolare contro il doge Pietro Candiano IV, un incendio devastò la chiesa primitiva, l’antenata, per capirci, della Basilica che tutti conosciamo e ammiriamo. Oltre alla struttura, le fiamme si presero anche il corpo di san Marco, nel senso che si perse traccia delle reliquie dell’evangelista.

Per i veneziani di allora, lo shock – comprensibilmente – fu davvero tremendo. Si temeva che l’incendio avesse distrutto per sempre la salma del santo, anche se la totale assenza di tracce fece, in un secondo momento, propendere per il furto. Le ipotesi insomma si accavallavano in un crescendo di panico e sconcerto ma intanto, nonostante il trascorrere degli anni, il corpo non si trovava. Niente di niente. Cosa che alimentò una vera e propria disperazione cittadina alla quale non pareva esserci umano rimedio.

Così, quando tutto sembrava ormai perduto, nel giugno del 1094, il doge Vitale Falier stabilì un digiuno di tre giorni con precessione solenne nel quarto affinché Venezia potesse riavere il suo tesoro perduto. Una decisione che oggi molto probabilmente susciterebbe i risolini dei tanti scettici che popolano i media. Invece i veneziani di allora presero l’idea del doge molto sul serio. Nei documenti locali viene infatti raccontato il fervore del popolo che invocava con preghiere e lacrime il miracolo.

Ebbene, il sospirato prodigio avvenne: il 25 giugno, una delle poche colonne rimaste dell’antica chiesa vide le proprie pietre muoversi, lasciando apparire l’arca dove giaceva la salma dell’evangelista. Per Venezia fu una vera e propria rinascita, seguita da gioia e festeggiamenti. Ora, che insegna tale episodio? Una cosa, essenzialmente: per quanto l’origine di tale legame sfumi nella leggenda, è impossibile pensare a san Marco senza Venezia, e viceversa. In secondo luogo, quanto detto evidenzia l’importanza, non appena sarà possibile, di fare una capatina nella città veneta, per rendere omaggio all’Evangelista che fu amico personale di Pietro e Paolo. Scusate se è poco.

Giuliano Guzzo