C’è una piccola imprecisione, nella ricostruzione della vicenda di don Giuseppe Berardelli, il sacerdote di 72 anni di Casnigo, Bergamo, che il coronavirus ha ucciso dopo che egli ha rinunciato al respiratore che la sua comunità parrocchiale aveva acquistato proprio per lui. L’imprecisione consiste nel fatto che don Berardelli, quel respiratore, in realtà non l’ha dato a qualcuno di più giovane, non l’ha dato neppure ad una singola persona: l’ha donato ad ognuno di noi.

Chiunque oggi apprenda del suo sacrificio, infatti, può respirare a pieni polmoni e sentire entrare nell’anima un versetto di Vangelo antico e sempre nuovo: «Non c’è Amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15, 13). Parole che troppo a lungo, ingannati da una fede anestetizzata dall’abitudine, abbiamo creduto composte di mere lettere, mentre invece sono state scritte in modo tridimensionale, con carne e sangue, per essere ogni volta rivissute, quindi ridonate.

Questa è la lezione che ci lasciano don Berardelli e i tanti sacerdoti che, giorno dopo giorno, piegati dalla malattia, chiudono gli occhi. A prima vista semplici preti, sono in realtà combattenti, guerrieri veri che non lasciano il campo senza aver prima liberato nell’aria altra aria, stavolta aria buona, ossigeno purissimo che ci consente di tornare ad aprire gli occhi su tutto: dai lineamenti della Speranza alla nostra minuscola statura ogni volta che, avvelenati da piccole polemiche umane, ci siamo chiesti dove fosse la Chiesa.

Giuliano Guzzo

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