Non sapendo come contrastare il sovranismo, decisero di ricoverarlo. Si racconterà così, un domani, l’odierno tentativo progressista di liquidare il fenomeno degli ultimi anni come disagio mentale di massa: dalla politologia alla psicopatologia, sola andata. Coniata un anno fa dal Censis, l’espressione «sovranismo psichico» sta infatti dilagando: ne hanno tra gli altri parlato Massimo Recalcati – secondo cui «siamo di fronte a una patologia del confine» -, Sergio Romano – che ha intitolato un suo libro L’epidemia sovranista -, e perfino la Treccani è giunta a darne una propria autorevole definizione: «Atteggiamento mentale caratterizzato dalla difesa identitaria del proprio presunto spazio vitale».

La cultura dominante – quella degli atenei, del giornalismo colto, perfino di certo clero – sta insomma tentando di patologizzare il dissenso politico, secondo una prassi intimidatoria, da regime, che speravamo archiviata. Invece no. Siamo ancora qui ad apostrofare come disagiato a chi, in fondo, ha una sola colpa: aver cari valori come la patria, le radici, i confini stessi. Che più che barriere sono condizioni naturali. Ben prima dello Stato, infatti, sono il nostro corpo, il nostro tempo, perfino la nostra vita ad avere confini. Consapevolezze, queste, che il progressismo rigetta sposando lo «sconfinamento» come paradigma verso l’immortalità, l’arricchimento culturale, la pace tra i popoli. Eppure l’uomo non è fatto per vivere «sconfinando»: tutto il contrario.

Nasciamo difatti tutti «confinati» in un grembo, e cresciamo «confinati» in una famiglia, in una scuola, in un quartiere, in un credo. E questo, si badi, non è causale. E’ una condizione ineludibile dell’esistenza, che sarà pure «tutto un equilibro sopra la follia» –  come direbbe Vasco –, ma è pur sempre esperienza confinata in un tempo e in un luogo. E cosa è, in fondo, il sovranismo se non questo, e cioè non «la difesa identitaria del proprio presunto spazio vitale», bensì il bisogno ancestrale di identità in un mondo globale e quindi «sconfinato», senza più frontiere, limiti e, in definitiva, certezze? Questo perché il vero male del nostro tempo è non è affatto il sovranismo bensì il globalismo, ossia l’illusione di sopravvivere sradicati. Un male che non sappiamo quanto sia psichico, ma di certo rincoglionisce molto.

Giuliano Guzzo