Più la cosa si materializza e da ipotetica diviene concreta, più il governo giallorosso sembra non convincere Luigi Di Maio, che dell’«oggetto misterioso», come lo ha chiamato giorni fa Emma Bonino, è – numeri alla mano – il principale azionista. Lo scetticismo del capo politico del Movimento 5 Stelle è emerso bene ieri quando, dopo essere stato ricevuto dal premier incaricato Giuseppe Conte, ha tenuto un discorso duro terminato ricordando che nulla si fa senza la piattaforma Rousseau. Della serie: queste sono le nostre condizioni per un nuovo esecutivo, prendere o lasciare, e comunque l’ultima parola l’avranno i nostri iscritti.

Addirittura, il leader grillino ha evocato le elezioni da farsi, in caso, «presto». Più che un discorso, è stata quindi una vera e propria bomba dato che non solo ha creato scompiglio in casa Pd, ma è stato seguito da un abbassamento contestuale della borsa, una crescita dello spread e una maratona improvvisata di Enrico Mentana, che si è ritrovato per oltre quattro ore a commentare spaesato e da solo, in studio, un pomeriggio di ordinaria follia. Sì, perché non è la prima volta che Di Maio spiazza tutti proprio sulla nascita del governo giallorosso.

I più attenti osservatori ricorderanno infatti come giovedì 22 scorso, nell’ambito del giro di consultazioni quirinalizie, sempre il leader M5S se ne sia uscito con un intervento con cui – con gran sorpresa di tutti – non chiuse il «forno» leghista, cosa che alimentò parecchi mal di pancia in casa dem. Poi la cosa è rientrata, ma se due più due fa quattro tutto ciò non può essere un caso. Difficile, insomma, che Di Maio stia facendo tutto questo solo per alzare la posta. E’ invece più plausibile che l’ex vicepremier sia alle prese con le difficoltà di un governo giallorosso del quale il M5S è il principale azionista, ma non il principale sponsor.

Non va infatti dimenticato che gli sponsor di questo governo, per lo più esterni al movimento grillino, sono: Matteo Renzi, consapevole che eventuali urne oggi dimezzerebbero i suoi parlamentari, Giuseppe Conte, premier per caso che dopo 14 mesi spalla a spalla con i grandi del pianeta verosimilmente non smania di tornare nelle aule universitarie sparendo dai radar delle cronache, ovviamente l’Ue, corsa a benedire entusiasta l’ipotesi giallorossa e, infine, influenti esponenti del mondo cattolico, capofila dei quali è padre Antonio Spadaro, che hanno in Matteo Salvini il loro unico incubo. Questo da una parte.

Dall’altra, però, c’è un movimento che alleandosi con il Pd abbraccerebbe proprio l’establishment sempre detestato e in opposizione del quale si è radicato. Non a caso molti osservatori hanno parlato di una base in rivolta. Poi, certo, c’è anche un’ala del M5S – quella di Roberto Fico e quella dei capigruppo, usciti dai tavoli delle trattative sempre col sorriso, Grillo stesso – che il governo 5 Stelle-Pd lo tollera senza problemi. Ma allearsi con il Pd senza rinnegare i 14 mesi con la Lega e senza diventare definitivamente organici ai poteri forti è dura. Un pericolo chiarissimo a Luigi Di Maio, Di Battista a Paragone e ad altri. Ed è anche il motivo per cui il governicchio fatica a nascere.

Giuliano Guzzo

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