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Il Disegno di legge sulla legalizzazione della cannabis, da ieri all’esame del Parlamento, pare destinato a non giungere alla votazione finale prima di settembre eppure le polemiche che sta scatenando risultano già piuttosto accese. Personalmente, seguo ormai da anni il dibattito su questo argomento e non posso fare a meno di constatare, ogni volta che l’attenzione si focalizza sul tema delle cosiddette “droghe leggere”, il diffondersi di un atteggiamento irrazionale specie da parte di quanti si riconoscono in una posizione, per così dire, antiproibizionista, i quali non fanno che riproporre argomenti a prima vista molto convincenti, con l’efficacia dello slogan, ma che però esaminati da vicino rivelano una debolezza spesso imbarazzante. Una rapida rassegna critica di queste tesi – in particolare, delle cinque più popolari – aiuterà a capire quanto avventati siano taluni entusiasmi.

Si dice che il proibizionismo sia perdente, che vietare non serva a niente. Ora, anche se ripetuta fino alla noia, trattasi di tesi di dubbia correttezza poiché non si capisce bene quando il fallimento del proibizionismo si sarebbe verificato: di certo non negli Anni Venti americani – quando la lotta agli alcolici portò fra il 1921 ed il 1934, al calo dei consumi, degli arresti per guida in stato di ebbrezza nonché delle ospedalizzazioni per patologie alcol correlate, quali la cirrosi (cfr. Harvard’s Kennedy School of Government, 1989) – e neppure ai giorni nostri con l’Italia che, senza legalizzare nulla, dal 2010 registra un calo di uso di droghe nella popolazione generale. Ergo, il tonfo proibizionista rimane misterioso a meno che, ovvio, non si voglia asserire che nessun divieto di un fenomeno l’ha mai estinto; ma allora dovremmo legalizzare pure omicidio, furto, stupro, vendita di organi…

Si dice che la Direzione Nazionale Antimafia sia favorevole alla legalizzazione della cannabis: vero. Quel che però non si dice – o si preferisce tacere – è l’estrema debolezza degli argomenti che portano la DIA su queste posizioni; una debolezza facilmente riscontrabile leggendole (cfr. Relazione Annuale 2014, pp. 355-359) e vedendo come, in costanza, se da un lato la DIA si spinge a denunciare «il totale fallimento dell’azione repressiva», dall’altro lo fa proponendo un esame dei dati solamente per il periodo compreso tra l’1/07/2013 e il 30/06/2014, vale a dire un arco temporale di neppure un anno. Un po’ poco, davvero, per trarre conclusioni tanto sentenziose che sarebbe molto più saggio affidare ad analisi che possano consentire un confronto di più ampio respiro e non a valutazioni, sia detto col massimo rispetto, prive di quella solidità che la serietà dell’argomento imporrebbe.

Si dice che legalizzare le “droghe leggere” strozzerebbe la criminalità organizzata, che perderebbe quote imponenti del suo business. Popolare e rilanciata con insistenza, anche questa posizione – che già il giudice Paolo Borsellino (1940-1992), uno che alla criminalità non faceva sconti, liquidò come «tesi semplicistica e peregrina», tipica di quanti hanno «fantasie sprovvedute» (Droga libera o uomini liberi? in Oltre il muro dell’omertà. Scritti su verità, giustizia e impegno civile, Rcs, Milano 2011, p. 96) – è stata recentemente demolita anche da Nicola Gratteri, procuratore di Catanzaro da una vita in prima fila nella lotta alla `ndrangheta, il quale da un lato ha evidenziato come oltre il 90% dei tossici faccia uso di droghe pesanti, il cui traffico rimarrebbe nelle mani del crimine, e, dall’altro, ha spiegato come la commercializzazione legale di canapa costerebbe tre volte in più di quella illegale, che quindi rimarrebbe – tanto più in una fase di crisi economica – padrona del mercato.

Si dice che la legalizzazione della cannabis non ne aumenterebbe il consumo. Una tesi, questa, particolarmente singolare dato porta a chiedersi se sia davvero «verosimile che la messa a disposizione di una sostanza già di amplissima e, praticamente anche se non legalmente, libera diffusione possa contribuire alla riduzione del suo uso, o non sia piuttosto ben più probabile, o inevitabile, il contrario» (Rivista di Psichiatria, 2015). La stessa esperienza del Colorado, spesso citata come modello, non è proprio confortante: i negozi autorizzati a vendere marijuana aprirono nel gennaio 2014, mentre la legge per consumo, coltivazione e vendita della marijuana risale invece al dicembre 2012. Ebbene, se tra il 2011 ed il 2012 la percentuale di coloro oltre i dodici anni che dichiaravano di aver consumato marijuana risultava del 16,2%, fra il 2012 ed il 2013 era già del 18,9%. Se la matematica non è un’opinione, non solo non c’è stata alcuna riduzione, ma si è verificato addirittura un aumento del consumo.

Si dice che vietare la cannabis sia assurdo perché «una canna non ha mai ucciso nessuno». In risposta ad una simile affermazione, si deve rammentare come il consumo di questa sostanza – oltre a tradursi, per alcuni, nel rischio di passare ad altre droghe (Journal of Drug Issues, 2008) – risulta correlato al rischio di psicosi (Psychological Medicine, 2011), di crisi depressive (Journal of Psychiatry, 2010) e problemi al cuore (International Journal of Cardiology, 2007), nonché al pericolo d’incidenti automobilistici, come accertato da numerosi esperimenti in laboratorio e simulazioni di guida (Emergency Medicine, 2002; Epidemiologic Reviews 1999), metanalisi che hanno considerato centinaia di studi precedenti (BMJ, 2011), nonché dall’esperienza di diversi Stati (American Journal of Epidemiology, 2014), e come ricordato nelle stesse relazioni ufficiali (Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dati anno 2012 e primo semestre 2013 – elaborazioni 2013, p. 223).

Siamo pertanto nelle condizioni, a questo punto, di affermare serenamente come non esista un solo vero argomento – neppure uno – a supporto della convenienza e dell’utilità di legalizzare il consumo delle “droghe leggere”. Ma anche se così non fosse, anche se le tesi a favore della cannabis libera fossero meno traballanti di quanto non siano, rimarrebbe comunque numerosi interrogativi con i quali fare i conti: quale credibilità avrebbe domani, nel contrasto alle droghe, uno Stato che oggi si arrendesse alla loro legalizzazione? Che ne sarebbe del diritto nel momento in cui la sensatezza dei divieti di un ordinamento iniziasse ad avere fondamento statistico e demoscopico? E soprattutto: viene prima la tutela della salute pubblica, in particolare quella dei giovani, oppure la necessità di uno Stato già elefantiaco e sprecone, come il nostro, d’arricchirsi tassando il consumo di droga?

Se queste domande sono ancora lecite, data la posta in gioco, direi che è il caso di non evitarle. Anche perché, appunto, la sola certezza, il solo dato sul quale tutti non possiamo non convergere è il denaro: legalizzare le “droghe leggere” non vibrerebbe alcun colpo mortale alle mafie (che sul mercato di cose legali, si pensi all’edilizia, speculano allegramente da una vita), ma garantirebbe allo Stato entrate. Così, lo stesso Stato che qualcosa (poco) investe per combattere le piaghe dell’alcolismo e del tabagismo, si troverebbe ad arricchirsi sulla pelle dei contribuenti ai quali sta già infliggendo pesanti tagli sulla sanità. E la stessa generazione – la mia – alla quale è stato già sottratto molto futuro, si vedrebbe servito su un piatto d’argento la possibilità di fumarsi quello che resta. Chiamatelo pure progresso: a me pare solo una presa in giro nella quale, quel che è peggio, molti confidano. Pure l’autodistruzione, maledizione, ci stanno vendendo.

Giuliano Guzzo