E’ decisamente ancora troppo presto per farsi un’idea chiara su quanto accaduto ieri a Monaco, una sparatoria costata la vita a nove persone, cinque delle quali minorenni, eppure esiste già – in aggiunta al dolore per le vittime – un elemento sul quale è possibile soffermarsi, vale a dire il tentativo mediatico e giornalistico di scagionare non tanto e non solo il terrorismo islamico (sulla cui matrice le certezze, in effetti, ancora mancano), bensì l’autore stesso del massacro, il 18enne Ali Sonboly tedesco-iraniano dalla doppia cittadinanza. Stiamo infatti assistendo ad un tentativo – come avvenuto per Mohamed Lahouaiej Bouhlel, l’autore della strage di Nizza presentato inizialmente come squilibrato e depresso – di deresponsabilizzare un assassino che tale sarebbe stato per ragioni esterne, in questo caso il bullismo. Vero è che pare sia stato lo stesso Ali Sonboly a presentarsi così («Sono stato vittima del bullismo per 7 anni e ora ho dovuto comprare una pistola per spararvi»), ma la verità è che già da subito certi giornalisti si erano avventurati sul sentiero dello stragismo di estrema destra pur di allontanare l’ipotesi islamista.
Come mai? Quali le ragioni di questa tendenza? La mia sensazione è che alla base del fenomeno vi siano almeno tre elementi. Il primo è il politicamente corretto: laddove vi sono di mezzo crimini commessi da soggetti immigrati o di origine straniera, la parola d’ordine è insabbiare o, quanto meno, ridimensionare il più possibile. Costi quel che costi. Lo si è visto con lo stragista di Nizza, ma lo si vide ancora più chiaramente con gli stupri a Colonia: lì la censura fu magistrale se si pensa che i nostri Corriere, La Repubblica e La Stampa iniziarono a raccontare l’accaduto solo a quattro, cinque giorni di distanza. C’è poi la questione relativista. Ammettere che un assassino abbia compiuto il Male, per la nostra cultura anche giuridica, sta diventando un passaggio inaccettabile: molto più comodo ripiegare su sociologia da discount e iniziare ad arrampicarsi sugli specchi giocando le carte retoriche dell’emarginazione, dell’esclusione sociale, della vendita di armi, del bullismo. Dato infatti che il Bene e il Male, secondo il pensiero dominante non esistono, conseguentemente non può esistere un colpevole vero e proprio; di qui l’accentuazione della cause remote di una crudeltà che a sua volta si fa così remota e, conseguentemente, sempre meno tale.
Infine, un terzo motivo del perché qui noi si corra sempre, davanti anche a crimini enormi, a puntare il dito contro la cattiva integrazione e la nostra incapacità di accogliere davvero, l’ha descritto benissimo – e con un certo anticipo rispetto ai fatti odierni – l’allora card. Ratzinger: «C’è qui un odio di sé dell’Occidente che è strano e che si può considerare solo come qualcosa di patologico; l’Occidente tenta sì in maniera lodevole di aprirsi pieno di comprensione a valori esterni, ma non ama più se stesso; della sua storia vede ormai soltanto ciò che è deprecabile e distruttivo, mentre non è più in grado di percepire ciò che è grande e puro» (Senza radici, Mondadori 2004, pp. 70-71). Morale: fino a che non sapremo riconoscere la nostra crisi culturale ma soprattutto spirituale, fino cioè a che non sapremo guardare in faccia il Male chiamandolo col suo nome – senza temere di farlo laddove agito da persone di fede islamica o di origine estera -, ci ritroveremo non solo a subire stragi e a contare vittime, ma pure nell’impossibilità di renderci conto dell’orrore di cui siamo testimoni, lacerati tra istanze guerrafondaie ed elementari (Siamo in guerra: grazie tante!) e buonismo demente (Ora non generalizziamo!) e, pertanto, impossibilitati ad evadere da una paralisi politica che, in primo luogo, è paralisi della mente e dell’anima; sempre che di anima sia ancora concesso parlare.