Se c’è un tormentone che, oramai da anni, viene ripetuto ossessivamente e che, in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne di ieri, è guarda caso tornato di attualità, è quello secondo cui la maggior parte delle violenze contro le donne avverrebbe «in famiglia», dove il marito-padre-padrone, confidando nel silenzio della consorte, si sentirebbe libero di scatenarsi in atti di violenza agendo di conseguenza. E’ una tesi che si è liberi di sostenere, naturalmente: a patto, però, che non si abbia il desiderio di tentare di dimostrarla. In quel caso infatti il rischio, anzi la certezza è di essere smentiti da studi e ricerche internazionali che, quasi senza eccezioni, da decenni indicano per esempio la convivenza extramatrimoniale, più che la condizione coniugale, come l’ambito di coppia nel quale si registrano i più elevati tassi di violenza domestica [1]. In letteratura vi sono persino evidenze secondo le quali le donne divorziate, separate o nubili, in media, risulterebbero vittime di violenza addirittura quattro volte di più di quelle sposate [2]. Esagerazioni, si obietterà.
Peccato che anche l’Istat – fra l’altro in un report diffuso nel giugno di quest’anno, e che su questo punto non ha avuto la visibilità che avrebbe meritato – sia pervenuto a conclusioni analoghe: considerando le donne dai 16 ai 70 anni rimaste vittime, gli ultimi cinque anni, di violenza fisica o sessuale da un uomo nel 2006 si è infatti registrata come categoria più esposta quella delle nubili, quindi le separate o divorziate e solo dopo le donne coniugate; la stessa rilevazione, per l’anno 2014, ha visto donne coniugate come percentualmente le meno esposte al rischio di subire violenza (6,5%), superate solo dalle vedove (4,0%), verosimilmente perché donne più avanti con l’età e che escono pure meno frequentemente di casa [3]. Dunque l’idea che «la maggior parte delle violenze» avvenga in famiglia è semplicemente falsa e plausibile solo in termini assoluti per l’ovvio fatto che i nuclei familiari intatti, rispetto alle convivenze o ad altre situazioni, sono numericamente la maggioranza. Si può tuttavia affermare, senza timore di essere smentiti, che per una donna la vituperata famiglia non costituisca pericolo alcuno. Tutt’altro.
giulianoguzzo.com
Note: [1] Cfr. BMC Public Health, 2011; Intimate Violence in Families, 1997; Journal of Marriage and Family, 1991, Interpersonal Violence among Married and Cohabiting Couples, 1981; [2] Cfr. Heritage Foundation Backgrounder, 2002; Sex, Power, Conflict, Oxford University Press, 1996; [3] Cfr. La violenza contro le donne dentro e fuori la famiglia, «Istat», 2015;1-17:11.
Gentile Dottore,
La ringrazio per l’articolo.
Da collega sociologa (o quasi, otterro’ il dottorato a breve) mi permetto pero’ di farle dei commenti metodologici.
La sua analisi dei dati mi sembra imprecisa in alcuni punti:
– Qual e’ la sua definizione di “famiglia”? Credo sia importante precisare. La violenza puo’ essere perpetuata “in famiglia” anche nel caso di divorziate o single, per esempio dal padre, dallo zio, dal fratello, dal figlio, dall’ex partner (e l’elenco e’, purtroppo, molto lungo)
– “I partner attuali o ex commettono le violenze più gravi. Il 62,7% degli stupri è commesso da un partner attuale o precedente” (ISTAT http://www.istat.it/it/archivio/161716). Questo non connette direttamente la violenza con la famiglia? Secondo alcuni dati la violenza domestica e’ allarmante: http://www.ncadv.org/learn/statistics
(Sono dati americani, bisognerebbe quindi capire se possono dirci qualcosa dell’Italia, ma e’ utile conoscerli)
– Mi sembra di capire che lei si spiega il punto precedente differenziando la famiglia basata sul matrimonio da quella di semplici conviventi. Dal punto di vista sociologico, pero’, non avanza ipotesi per questa differenza: sta cercando di dirci che gli uomini sposati sono meno violenti? Se si, perche’? Ci sono dati sulla violenza coniugale suddivisi per religioni, o dobbiamo dedurre che il matrimonio civile e quello religioso portano agli stessi risultati in termini di violenza? Dati aggiuntivi potrebbero dare piu’ chiarezza ad un quadro che non mi sembra molto preciso.
– Giustamente lei spiega che le donne divorziate, “piu’ avanti negli anni”, hanno meno probabilita’ di subire violenza perche’ escono meno di casa. Per lo stesso motivo, le piu’ giovani (per esempio, le studentesse) potrebbero averne di piu’, perche’ passano piu’ tempo fuori casa e/o hanno meno risorse per prevenire le violenze. Anche questa ipotesi dovrebbe essere tenuta in considerazione, tanto piu’ che ci sono dati che mostrano come le donne piu’ giovani sono piu’ spesso vittime di violenze: http://www.bjs.gov/content/pub/pdf/rsavcaf9513.pdf
– Un altro dato da tenere conto e’ il fatto che non tutte le donne denunciano una violenza subita. Una violenza in famiglia potrebbe essere piu’ difficile da denunciare di una subita da un estraneo.
– Molti dei dati che lei cita sono stati raccolti piu’ di due decadi fa. Certamente sono rilevanti, ma e’ importante contestualizzare. Oltretutto, potrebbe mettere i link precisi ai dati?
Mi permetto poi un’osservazione mia (che di certo e’ libero di non condividere):
– Come lei giustamente dice le statistiche rivelano che ci sono piu’ donne separate o single a subire violenza di quelle sposate. L’ISTAT pero’, in generale, parla con allarmismo degli alti numeri di violenza sulle donne: questo e’ il dato piu’ importante, non tanto discernere se la violenza e’ perpetuata dentro o fuori il matrimonio.
La ricerca spiega che una maggior consapevolezza e’ fondamentale nella lotta contro la violenza; invece di scrivere che le donne in famiglia sono “sicure”, un lavoro di denuncia, informazione e supporto e’ molto importante.
Grazie
Paola
Gentile Dottoressa,
La ringrazio per il lungo commento, quasi come il mio articolo (che non aveva pretesa di essere un’analisi, Lei è troppo buona!). Poiché il tempo – incluso il mio – è purtroppo tiranno, sarò telegrafico andando al cuore delle sue obiezioni:
– E’ vero, non mi sono soffermato sulla definizione di famiglia, che a mio avviso coincide con l’unione coniugale intatta: quanto accade con divorzi e separazioni riguarda dinamiche familiari, ovvio ma non, secondo me, direttamente la famiglia quando piuttosto il suo processo di frantumazione;
– Certamente violenza domestica e la violenza in generale – condivido la sua osservazione, in pieno – è un problema, e proprio per questo ritengo fuorviante associarla (o lasciarla indirettamente associare, cosa che spesso accade) alla condizione coniugale, che riguarda in quota molto limitata questi abusi: anche perché se le donne faticano a denunciarli, non vi sono elementi concreti per dire che le mogli siano più “reticenti” delle conviventi o delle divorziate…;
– I link delle ricerche citate devo chiederLe la pazienza di cercarseli (attenzione che due sono libri), mentre non intendo dribblare la sua critica più pungente, se così posso dire: “Sta cercando di dirci che gli uomini sposati sono meno violenti?”. La risposta è semplice: no. Quello che tento di ricordare (non ci dovrebbe essere, in un mondo normale, bisogno di dimostrarlo) è semplicemente che la condizione coniugale è il miglior antidoto alla violenza non per la qualità dei mariti, ma per la qualità del rapporto, che essendo duraturo e “vivo” comporta più rispetto e più attenzione al rispettarsi. Viceversa è il lasciarsi – per decenni dipinto come liberatorio – che innesca le tensioni peggiori;
– Un’ultima cosa non ho scritto che sono le donne divorziate ma le “vedove” ad essere più avanti con gli anni.
Non intendo convincere nessuno, cara Dottoressa, ma confido di aver, almeno in parte, risposto al Suo lungo intervento. Tanti auguri per il suo “futuro sociologico” 🙂
Giuliano Guzzo
Gentile Dottore,
La ringrazio molto per la risposta. Visto che, come lei scrive, il tempo e’ tiranno per tutti, le rispondero’ solo con un’osservazione per me molto importante:
Se lei scrive che l’unione coniugale e’ la migliore per prevenire la violenza e la presenta come sua opinione, nulla da criticare.
Ma lei utilizza dei dati per supportare questa tesi, e i dati non ci dicono necessariamente quello che lei sta cercando di fargli dire. Questo uso dei dati non e’ corretto.
Ovvero:
Lei dice che, visto che le divorziate o single subiscono piu’ violenze, il matrimonio e’ il modo migliore per prevenire le violenze.
Ma ci sono molte altre letture dei dati totalmente diverse, per esempio, che una donna vittima di violenza divorzia dal partner abusivo, o che quando molestata una donna rifuta (saggiamente) si sposarsi con un partner violento, rimanendo cosi’ “single”. Non e’ il matrimonio che protegge dalla violenza, e’ la donna abusata che rifugge il matrimonio violento.
Giusto per suggerirne una.
Ovviamente, essendo lei un sociologo sa benissimo come interpretare dei dati, e va benissimo che li citi in un articolo del genere, pero’ metta in chiaro che questa e’ la sua opinione.
Cordialmente,
Paola
Chiedo scusa, forse non ci siamo capiti: la tesi inesatta – ed è questo che l’articolo indica, null’altro – è che statisticamente, come si legge quasi ovunque, la maggior parte avviene in famiglia, cosa vera solo nella misura in cui si considerino appartenenti alla famiglia le donne “separate o divorziate”. Quanto alle “altre letture” che Lei intelligentemente ipotizza per spiegare la minore incidenza di violenza per le donne che vivono la condizione coniugale – tutte possibili, nessuna però dimostrata – trattasi, pure in questo caso, di ipotesi. La mia ipotesi è che sia anzitutto la qualità del rapporto coniugale, derivante a sua volta dall’impegno specifico che il vincolo coniugale implica (ben diverso da quello, assai più sbiadito, che implica per esempio la convivenza) a favorire relazioni meno violente. Ciò detto, insisto, affermare che la maggior parte delle violenze avvenga in famiglia – a meno che non si intende una definizione assai estensiva di cosa sia la famiglia – significa dire una falsità. Saluti a Lei, e buone cose.