C’è un filo rosso che collega il dibattito sulle unioni civili in corso in Commissione Giustizia, il servizio a Le Iene andato in onda giovedì scorso e, più in generale, il modo con cui solitamente si affronta il tema delle coppie formate da persone dello stesso sesso: è il sistematico tentativo di sottolineare la genuinità di un sentimento d’amore al quale sarebbe quanto meno discriminatorio negare un riconoscimento giuridico dal momento che lo stesso sentimento – si dice – viene invece considerato e valorizzato allorquando vissuto da persone di sesso diverso. Ora, se le cose stessero davvero in questi termini si tratterebbe senza dubbio di una clamorosa ingiustizia: perché mai l’ordinamento, nello stabilire cosa sia e cosa non sia da intendersi per famiglia, dovrebbe privilegiare i sentimenti di alcune coppie ed ignorare quelli di altre?
Il punto è che un simile ragionamento, fondato sul confronto fra l’amore di un marito e di una moglie con quello di due persone dello stesso sesso, non sta in piedi non già per via di una bizzarra gerarchia di affetti a seconda della tendenza sessuale di chi li sperimenta, ma perché – anche se forse suona singolare ed è sicuramente impopolare ricordarlo – il motivo per cui lo Stato riconosce e finora ha riconosciuto piena legittimità alla sola famiglia intesa come «società naturale fondata sul matrimonio» non è, per così dire, di ordine sentimentale. Nessuno, tanto meno i Padri Costituenti, ha cioè mai immaginato che non vi fossero altre forme d’amore al di là di quello coniugale. E la ragione per cui, nonostante detta consapevolezza, si è comunque riservata attenzione alla sola coppia unita in matrimonio deriva essenzialmente dagli oggettivi benefici che, in termini di stabilità e garanzia demografica, la famiglia comporta per la collettività.
La coppia sposata, rispetto pure a quella convivente composta da persone di sesso diverso, rappresenta un bene – ed è per questo che deve essere tutelata e promossa più di altre unioni – perché assicura una solidità con riflessi positivi non solo per i coniugi, e conseguentemente per l’intera comunità, ma anche e soprattutto per i figli i quali, da un lato, si ostinano a nascere molto più frequentemente all’interno del matrimonio e, dall’altro, sperimentano vantaggi senza eguali nel poter crescere e nel poter essere educati dai propri genitori biologici, specie se uniti dal vincolo coniugale. Ciò non vuol dire, per ribattere ad una facile obiezione, che avere padre e madre sia, per un bambino, garanzia di felicità assoluta né alcuno, a ben vedere, ingenuamente lo asserisce; mentiremmo tuttavia se dicessimo che per la crescita equilibrata di un figlio la presenza di papà e mamma, con le loro preziose diversità e complementarietà, non costituisce che un optional.
Se non capiamo questo, se non ravvisiamo più la fondamentale specificità della coppia sposata, più stabile, feconda e benefica per i figli sia di quella convivente sia di quella – costitutivamente sterile, per dirla col professor Francesco D’Agostino – composta da persone dello stesso sesso, significa che, prima che dei diritti, faremmo bene a tornare ad occuparci dei doveri, prima di tutto quello di prendere atto della realtà la quale, piaccia o meno, ci consegna un’evidenza inconfutabile: nessuna civiltà, nella pur lunga storia umana, ha mai potuto e saputo mettere fra parentesi matrimonio e famiglia senza pagare un prezzo altissimo e senza dover poi tornare sui propri passi. Sottovalutare questo elemento storico ed antropologico, distratti da un dibattito furbescamente impostato sui sentimenti e che non tiene conto delle conseguenze sociali che l’instabilità coniugale e l’inverno demografico stanno già comportando, potrebbe costarci molto caro.
(“La Croce”, 21/2/2015, p.3).
L’ha ribloggato su Luca Zacchi, energia in relazionee ha commentato:
C’è un filo rosso che collega il dibattito sulle unioni civili in corso in Commissione Giustizia, il servizio a Le Iene andato in onda giovedì scorso e, più in generale, il modo con cui solitamente si affronta il tema delle coppie formate da persone dello stesso sesso: è il sistematico tentativo di sottolineare la genuinità di un sentimento d’amore al quale sarebbe quanto meno discriminatorio negare un riconoscimento giuridico dal momento che lo stesso sentimento – si dice – viene invece considerato e valorizzato allorquando vissuto da persone di sesso diverso. Ora, se le cose stessero davvero in questi termini si tratterebbe senza dubbio di una clamorosa ingiustizia: perché mai l’ordinamento, nello stabilire cosa sia e cosa non sia da intendersi per famiglia, dovrebbe privilegiare i sentimenti di alcune coppie ed ignorare quelli di altre?
ma se un matrimonio può chiamarsi tale solo se ci sono i figli allora perché non permettiamo di sposarsi solo alle coppie che hanno intenzione di farne? Anzi, solo alle coppie che hanno appena fatto un figlio?
giuro. non capisco: deve esserci per forza un figlio per parlare di matrimonio? perché sarà pur vero che le leggi non parlano di amore…ma nemmeno di figli se mi permetti
Nessuno ha mai scritto che il matrimonio è tale SOLO se ci sono figli, né sussiste – ovviamente – alcun obbligo di farne. Tuttavia quello è il significato principale dell’istituto, che infatti si chiama matrimonio (mater + munus: il compito della madre), rinviando persino terminologicamente all’apertura alla vita. Saluti.