Con l’aumento dell’Iva al 22% torna di grande attualità – e non potrebbe essere diversamente – il dibattito sulle tasse e sulla necessità di arginare il loro continuo aumento. Di (eccessiva) pressione fiscale, del resto, s’è discusso recentemente pure in Francia [1], ed è notizia altresì recente il ritorno ufficiale delle tasse in quel di Cuba, dov’erano state abolite nel 1959 e parzialmente reintrodotte solo nel ’94 [2]. L’argomento, insomma, è piuttosto attuale ed anima la politica a livello internazionale, tanto più in tempi di cosiddetta austerità. Ma al di là di mere questioni partitiche, chiediamoci: è sempre giusto pagare le tasse? O meglio: le tasse possono talvolta essere immorali? E se sì, in quale caso si configurano come tali?
Posto che il nostro ordinamento, in particolare alla luce della giurisprudenza della Cassazione [3], persegue l’evasione ed estende pure alle fattispecie elusive il reato di abuso del diritto, e quindi il pagamento delle imposte – leggi alla mano – costituisce un evidente ed innegabile dovere, tentiamo di affrontare la questione sotto il profilo filosofico e, nello specifico, etico. Lo facciamo precisando subito che si tratta di un aspetto sul quale fior di pensatori, nel passato anche antico, si sono interrogati a fondo. Ora, se partiamo da una prospettiva cristiana (ma il ragionamento, qui, vale anche per chi cristiano non è) non possiamo – conformemente a quanto detto poc’anzi – non riscontrare come il pagamento delle tasse costituisca un impegno fondamentale.
E le testimonianze storiche, a questo proposito, sono molteplici; ci limitiamo – in aggiunta all’evangelico e citatissimo «Date a cesare quel che è di Cesare» [4] – a ricordare il prezioso contributo di Giustino («noi ci sforziamo d’essere i primi a pagare tasse e tributi ai vostri funzionari, da per tutto: così da lui (Cristo) ci fu insegnato») [5] e quello, analogo, che ci deriva dal ragionamento del martire Sperato col proconsole Saturino: «Io non sono reo di furti; se feo qualche affare, pago le tasse, perché conosco nostro Signore, re dei re e padrone di tutti i popoli» [6]. Ma ancora più efficace, forse, era l’apostolo Paolo quando esortava a rendere «a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi il tributo, il tributo; a chi le tasse le tasse» [7].
Il buon cristiano (e con lui il buon cittadino) quindi paga le tasse. Ma lo Stato? Che dovere ha? Per la vita delle Istituzioni, lo sappiamo, le tasse sono fondamentali dal momento che – come ci rammenta Capotosti – servono «per far fronte, interamente o solo in parte, ai costi dei servizi che lo Stato e le amministrazioni pubbliche erogano ai cittadini, persone fisiche e imprese» [8]. Ma il criterio-limite oltre il quale le tasse divengono eccessive e dunque immorali? Esiste, e se esiste quale è? E’ bene chiederselo dal momento che troppe tasse rappresentano non solo un’ingiustizia, ma financo una violenza; non a caso secondo Antonio Rosmini «l’assolutismo consiste principalmente nel comandare alla borsa degli altri» [9].
Ebbene, pure su questo – l’equità delle tasse – ci si interroga da molto e, nello specifico, se ne occuparono fra il 1350 e il 1500 filosofi e teologi appartenenti alla Scuola di Salamanca. La conclusione raggiunta e a tutt’oggi condivisa è, in sintesi, che per essere moralmente lecita e quindi obbligatoria la tassazione deve risultare conforme a quattro requisiti: deve essere giusta, finalizzata cioè a causa onesta (i contributi per l’aborto e la fecondazione assistita lo sono?); deve essere indispensabile al bene comune; deve essere equa, ossia conforme alla giustizia commutativa; deve essere commisurata alle possibilità contributive dei cittadini, vale a dire non astratta ma proporzionata alle possibilità della società civile [10].
Un limite alle tassazione dunque non solo è giusto, ma risulta persino doveroso. Non tanto – si badi – per un generico discorso di giustizia e di ingenua simpatia per il capitalismo, bensì per una valutazione di sostanza, che è questa: lo Stato, che delle tasse ha giustamente bisogno, si configura quale ordinamento giuridico e politico posto, mentre il diritto della proprietà privata no. Infatti, come spiegò anche Papa Leone XIII, deriva «non da legge umana, ma dalla naturale»; il che significa che «lo Stato non può annientarlo, ma solamente temperarne l’uso ed armonizzarlo col bene comune, ed è ingiustizia ed inumanità – specificò il Santo Padre – esigere dai privati, sotto nome d’imposte, più del dovere» [11].
A proposito dell’ingiustizia di tasse troppo alte, basti ricordare che l’economista Luigi Einaudi (1874-1961), padre della patria e futuro Presidente della Repubblica italiana, arrivò quasi a giustificare – a determinate condizioni, sia chiaro – la frode fiscale. «La frode fiscale – scrisse infatti Einaudi – non potrà essere davvero considerata alla stregua degli altri reati finché le leggi tributarie rimarranno vessatorie e pesantissime e finché le sottili arti della frode rimarranno l’unica arma di difesa del contribuente contro le esorbitanze del fisco» [12]. D’accordo, si può ribattere, ma dove finisce la tassazione legittima e dove iniziano le «esorbitanze del fisco»?
Si può rispondere , fermo restando l’insieme dei requisiti richiamati poc’anzi, ricordando come gli studiosi di morale economica ritengano che, anche volendo tener conto delle numerose funzioni organizzative che lo Stato ha inteso progressivamente di accentrare, il prelievo fiscale globale non possa oltrepassare un tetto massimo stimabile attorno al 30-35%, vale a dire circa un terzo del prodotto interno lordo; stima che ricomprende tutte le svariate forme di tassazione, con annessi contributi sociali [13]. Questo significa, per venire al dunque, che l’attuale pressione fiscale, in Italia, (pari a circa il 45%, anche più) non solo è alta ma è pure ingiusta e rischia di porre lo Stato sullo medesimo piano dell’evasore, cioè sul terreno dell’immoralità.
Ne consegue non soltanto che gli Italiani hanno il diritto di protestare per l’attuale ed ingiusta pressione fiscale [14], ma che anche i politici che ambiscono al loro sostegno elettorale hanno il preciso dovere di assumersi l’impegno di abbassarla. Infatti, com’ebbe a spiegare un altro grande papa, Pio XII, «non esiste dubbio sul dovere di ogni cittadino di sopportare una parte delle spese pubbliche, ma lo Stato, da parte sua, in quanto incaricato di proteggere e di promuovere il bene comune dei cittadini, ha l’obbligo di ripartire fra essi soltanto carichi necessari e proporzionati alle loro risorse» [15]. Solo così, infatti, sarà finalmente possibile osservare il principio generale «tanta libertà quanta è possibile, tanto Stato quanto è necessario» [16]. Principio che oggi, in Italia, è purtroppo calpestato. E, da stamattina, ancora di più.
Note: [1] Cfr. De Remigis F. Tasse ammazza-aziende «Il Giornale», 6/10/2012, p.14 [2] Cfr. Avana cliff. «Il Foglio», 28/12/2012, p. 3; [3] Cfr. Sent. n. 30055/2008 e Sent. 12042/2009; [4] Vangelo secondo Matteo 22,21 – Vangelo secondo Marco 12,17 – Vangelo secondo Luca 20,25; [5] Ap. I, 17, 1; [6] Taziano, 1,IV,1; [7] Lettera ai Romani 13,7; [8] Capotosti R. Etica e responsabilità per il governo delle imprese. Praeter legem: la legge pone obblighi minimali oltre i quali c’è l’etica, G. Giappichelli Editore, Torino 2011, p. 93; [9] Rosmini R. Scritti politici, Edizioni Rosminiane Sodalitas, Stresa 1997, p. 121; [10] Cfr. Azpiazu J. L’uomo d’affari, Edizioni La Civiltà Cattolica, Roma 1953, p. 421; [11] Enciclica “Rerum Novarum”, 1891, n. 35; [12] Corriere della Sera, 22 settembre 1907; [13] Cfr. Concetti G. O.F.M. Etica fiscale, Piemme, Casale Monferrato 1995, p. 34; [14] Cfr. De Mattei R. Lo “Stato-predone”, altra via al socialismo egualitario. «Radici Cristiane», n. 28, ottobre 2007; [15] Pio XII, Discorso del 2 ottobre 1956; [16] Messner J. Etica social, Rialp, Madrid 1967, p. 338.
Articolo molto utile e interessante, sig. Guzzo. Grazie
Grazie a Lei per l’attenzione.
Finalmente. Cercavo proprio un contributo sull’argomento, vista anche l’attualità.. Grazie! Ti re-bloggo.. 😉
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L’ha ribloggato su Il Guerriero della Luce.
Ciao Giuliano, interessante ma ci sono una tonnellata di “ma” è di “però”da aggiungere. Si vero, forse in Italia si pagano il 45%di tasse ma la percentuale non dice molto. Tutto è relativo. Esempio : chi prende lordi 2000€ al mese , gli rimangono 1100€ , più o meno. Con quei soldi ci paga l’affitto, ci mangia un po’ e non gli rimane nulla. Chi lordi ne prende 20000€? Con 11mila € al mese si fanno un sacco di cose e uno si strozzerebbe a mangiare per tutti quei soldi. Quindi sta lo la stranezza : c’è chi guadagna al mese tanti soldi che non sá neanche come spenderli e invece chi deve fare i conti con i bilancino per arrivare a fine mese. La percentuale è comune ad entrambe ma è immorale per chi prende 2000€ lordi al mese. Questo lo trovo immorale: la sperequazione che c’è anche all’interno della stessa azienda tra i così detti manager e chi stringe bulloni. Possibile che ci siano dei rapporti fra questi stipendi pari a 1200 volte? Possibile che questi fantomatici manager possano spendere 1200 volte di più? Non sarebbe meglio spalmare un po’ di quegli stipendi su tutti? Si avrebbe anche un altro influsso : 100 persone che prendono al mese 100 € in più, spendono molto ma molto di più che una persona che ne guadagna 10mila di €. Questo meccanismo cinico ma semplice, lo hanno capito parecchie nazioni europee. Purtroppo in Italia no, si preferisce a tastare soldi su soldi da quei pochi che tirano i fili di tanti. Non prendere le mie parole come politicizzate, ho sempre votato verso destra ma la moralità dovrebbe tornare nella nostra nazione.
Un saluto.
Infatti, sotto questo profilo di sperequazione, i peggiori sono i manager di stato, i cosiddetti “boiardi di stato” con stipendi ( e pensioni) di svariate decine di migliaia di euro al mese, arrivando a superare, in molti casi, i centomila euro al mese.
Si noti che quando si citano questi casi, i giornalisti di turno inseriscono immediatamente la rassicurante parola d’ordine: “diritti acquisiti”, per non allarmare/irritare i diretti interessati.
Diritti acquisiti che sono un’invisibile spartiacque tra gli eguali e i “più eguali” degli altri.
Un semplice cittadino, che “credeva di essere in pensione” , ad un cenno della Fornero se ne è dovuto tornare a lavorare per altri due anni, o meglio cercasi un lavoro, perché nel frattempo, ovviamente, lo aveva giustamente perso.
Lui non ha diritti acquisiti. Né noi vedremo un centesimo di pensione, malgrado trattenute di un quarto di stipendio ogni mese.
Non vedremo un centesimo!
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