gender

L’obiezione più frequente verso quanti giustamente si ribellano all’indottrinamento in salsa gender è, in vero già da qualche tempo, negare il problema. Si dice che in realtà la teoria del gender – come sottolinea anche un lungo articolo su Wired.it – «non esiste. Nessuno, in ambito accademico, parla di teoria del gender. È infatti un’espressione usata dai cattolici (più conservatori) e dalla destra più reazionaria per gridare “a lupo a lupo” e creare consenso intorno a posizioni sessiste e omofobe» (13.3.2015). Le cose stanno davvero così? Prima di verificare, urge fare un passo indietro specificando che cosa, in estrema sintesi, afferma la teoria del gender, e cioè la derivazione culturale dei caratteri maschile e femminile, sovrapposti alla base biologica di ciascuno nella forma di stereotipi comportamentali che nulla avrebbero di spontaneo e che, per questa ragione, sarebbero da eliminare. La più cristallina formulazione di questa teoria – ancorché non espressamente, a quel tempo, presentata con siffatta denominazione – la dobbiamo, com’è noto, alla filosofa e saggista Simone de Beauvoir (1908-1986), la quale scrisse che «donne non si nasce, lo si diventa», definendo la donna quale «prodotto intermedio tra il maschio e il castrato».

Chiarite queste premesse chiediamoci: la teoria del gender, formulata in questi termini, è davvero un’invenzione polemica, un pretesto, una creatura fantastica «usata dai cattolici (più conservatori) e dalla destra più reazionaria per gridare “a lupo a lupo” e creare consenso intorno a posizioni sessiste e omofobe»? Non sembrerebbe. Se difatti la teoria del gender non esistesse, se davvero nessuno volesse estirpare le differenze fra maschile e femminile, non si spiegherebbe, per esempio, l’idea d’istituire, in Svezia, Egalia, una scuola materna dove, pensate un po’, si è pianificata l’abolizione dei sessi al punto da arrivare a coniare un apposito pronome neutro “hen”, in luogo dei vetusti – e verosimilmente ritenuti sessisti – “hon” e “han”, e da stabilire che i bambini non debbano più essere chiamati “bambini” né le bambine “bambine” bensì, tutti, indistintamente ed appassionatamente, “amici” (Repubblica, 15.11.2012). Se la teoria del gender non esistesse, non si spiegherebbero neppure iniziative come il “Gioco del rispetto”, che si vorrebbe introdurre nelle scuole di Trieste, e che prevede attività come il “Se fossi”, con la quale i bambini sono invitati a vestire abiti anche non del proprio sesso, con la possibilità di rimanere vestiti così anche dopo.

Ancora, se la teoria del gender non esistesse non si spiegherebbe quanto accaduto in Francia dove in alcune scuole vengono proposti i testi del poeta travestito David Dumortier. Qualche assaggio potrà rendere l’idea dello strabiliante livello letterario e pedagogico di cui si sta parlando: «Clarissa mette il suo dito dappertutto. Si è bruciata appoggiando il suo indice sulla piastra elettrica, ieri se n’è messo uno nel sederino e ha sentito il suo odore». E ancora: «Mehdi va a scuola col rossetto. In più ha dei comportamenti da bambina. Sono automatici. Gli sfuggono dalle mani. E’ troppo tardi quando pensa di fermarli» (Il Foglio, 28.2.2014). Il dato interessante – e che dovrebbe far riflettere sulla natura ideologica della teoria del gender – è che non solo non esiste neppure uno studio scientifico che dimostri come queste sperimentazioni scolastiche riducano le discriminazioni, ma ve ne sono innumerevoli che attestano l’origine prenatale della formazione di caratteri differenti nei sessi, come l’intuito femminile (Psychoneuroendocrinology, 2014), ed altri riconducibili al ruolo-chiave che il testosterone riveste prima del parto per quanto riguarda, appunto, la predeterminazione di taluni atteggiamenti differenti dei bambini rispetto alle bambine (Psychological Science, 2009).

Questo legittima forse un “determinismo biologico”, per cui le differenze fra maschile e femminile sarebbero tutte innate senz’alcun influsso esterno? No, ovvio. D’altra parte, l’unico determinismo è quello dei fautori del gender, i quali – loro sì – riducono la differenza fra uomini e donne a meri stereotipi che nulla avrebbero di naturale. Quanto al rilievo secondo cui «nessuno, in ambito accademico, parla di teoria del gender», ci permettiamo ribattere con l’esempio, fra i tanti possibili, di Michel Maffesoli, già sociologo alla Sorbona – non proprio un’università sconosciuta, dato che fu frequentata, fra gli altri, da Tommaso d’Aquino, Erasmo da Rotterdam nonché dalla stessa Simone de Beauvoir – il quale non teme di parlare di questa teoria “inesistente” arrivando a dirsi contento per il fatto che la Norvegia, dopo averla promossa per decenni, si sia «allontanata dalla teoria del gender dopo che molti studi hanno mostrato l’incapacità delle relative politiche messe in atto di venire a capo di certi comportamenti». Che infine la teoria del gender sia una fissazione dei «cattolici (più conservatori)» appare smentito da papa Francesco in persona, lo stesso del “chi sono io per giudicare un gay?” – frase tanto citata quanto decontestualizzata -, il quale, di ritorno dal suo viaggio nelle Filippine, non solo ha parlato di quest’ideologia, ma ne ha denunciato la diffusione in ambito scolastico evocando lo spettro nientemeno che di una nuova «gioventù hitleriana». Oscurantista, omofobo e allucinato pure lui?

(“La Croce”, 18.3.2015, p.2).