Peggio del dire, come fa il portale web del Cai – acronimo di Club Alpino Italiano –, che sarebbe «anacronistico» innalzare nuove croci sulle montagne, c’è solo il minimizzare, scrivendo che nessuno ha «detto di togliere le croci sulle vette delle montagne»: grazie tante. Ma che cosa significa? Lo stop a nuove croci sulle cime invece va bene? Peggio di chi afferma sciocchezze, c’è solo chi rigira la frittata, dicendo che sei tu ad aver capito male. Mi pare si chiamino fact checker, anche se a me paiono più che altro paraculo, gente incapace di capire il dramma di un Paese e probabilmente di un’inciviltà che, credendosi aperta (sì: aperta al baratro, però) snobba il suo credo e la sua identità.

Tra l’altro, non è sempre stato così. C’è stato un tempo in cui si faceva praticamente a gara a metterle, le croci sulle montagne, dato che non facevano paura, tutt’altro. Racconta Mario Rigoni Stern (1921–2008) che, dopo una lunga contesa – iniziata addirittura, pensate, nel settembre 1910 – fra Asiago e Borgo circa l’effettiva “proprietà” di Cima XII (2341 m.) e della sua croce, il tutto si risolse allorquando i paesani di Borgo, nel 1973, ne innalzarono una seconda e «il loro poeta scrisse:” De le do Crose: una/l’è la nostra, del Borgo/l’altra la è la vostra/cari fradei de Asiago”» (Amore di confine, Einaudi 1986, p.170). Capito? All’epoca una croce di riferimento era addirittura un orgoglio. Bei tempi davvero. (Foto: Bing, free)

Giuliano Guzzo

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