Per farsi un’idea sul caso del professor David Goodall, morto oggi in Svizzera alle ore 12:30 mediante suicidio assistito, è più sufficiente soffermarsi su quanto egli stesso, pochi giorni fa, dichiarava: «Non sono felice, voglio morire». Chiaro? Certo, parliamo di un uomo che aveva 104 anni, non un giovine nel fiore degli anni, e che sempre aveva lottato per il diritto a darsi la morte, ma alla fin fine il nocciolo della questione era – ed è – tutto in quelle sue cinque parole: «Non sono felice, voglio morire». Nessuna malattia, dunque. Nessun dolore fisico insopportabile. Anzi, proprio nessun dolore fisico. Neppure una condizione terminale: solo l’infelicità.

Un’infelicità cui Goodall ha pensato di porre rimedio, oggi, iniettandosi in vena i barbiturici in una clinica di Basilea sulle note, evidentemente a lui care, dell’Inno alla Gioia di Beethoven. Un’infelicità, la sua, che è giusto non commentare sul piano personale, ma che è invece doveroso considerare su quello politico nel momento in cui – come in questo caso, meno isolato di quanto si creda – diventa, da sola, la faglia tra l’esistenza e la morte cercata. Non è un caso che i suicidi, fra le persone gravemente malate, risultino molto meno frequenti rispetto a quelli che si contano fra le sane ma, appunto, infelici. Raramente lo si ricorda, ma è così.

Se quindi la fine di Goodall ha un merito, è proprio quello di rivelarci la questione del presunto diritto di morire per ciò che è, vale a dire un rifiuto della vita sic et simpliciter, che nulla – nulla – a che fare con la lacrimevole retorica del dolore, né con lo spot filantropico della “dolce morte” come geste d’amour. Ma chi sei tu – mi si obietterà – per giudicare l’addio alla vita di chicchessia? Nessuno, ovvio. Il punto, però, qui, è un altro: quando è lo Stato a regolamentare il diritto di uccidersi, tutti sono titolati ad interrogarsi. Perché ammesso e non concesso esista il diritto di uccidersi, in ogni caso assai prima viene quello di chiedersi, se basta l’infelicità a farla finita, dove diavolo andremo a finire.

Giuliano Guzzo