La questione che la Suprema Corte di Cassazione pone nel momento in cui, come ha fatto ieri, ribadisce come «essenziale l’obbligo per l’immigrato di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale, in cui ha liberamente scelto di inserirsi» va chiaramente ben al di là della vicenda da cui era scaturito il processo – quella di un indiano Sikh che voleva circolare con un coltello ‘sacro’ secondo i precetti della sua religione, lungo quasi venti centimetri -, e sconfina oltre il piano giuridico, finendo con l’alimentare un dilemma decisivo ed enorme al tempo stesso. Se infatti da una parte, sia sotto il profilo giurisprudenziale sia sotto quello meramente etico, è pacifico che chiunque è tenuto a conformarsi ai valori della società che lo accoglie o ospita, dall’altra è impossibile, riflettendo su questo, non finire col porsi una semplice domanda: ma l’Italia, l’Europa e più in generale ancora il mondo occidentale, oggi, sono in grado di offrire a chicchessia un concentrato essenziale dei propri «valori»? Esistono cioè le premesse necessarie ad avviare un processo di integrazione a persone provenienti da altre realtà e che per le più svariate ragioni intendono stabilirsi qui?

La mia impressione è che – eccettuata una componente popolare istituzionalmente oggi sottovalutata se non perfino avversata quale responsabile dell’insorgere di presunti populismi -, la gran parte della società che oggi incensa i «valori» cui anche gli immigrati dovrebbero conformarsi sia in realtà corresponsabile del loro collasso. Intendo dire che i primi che dovrebbero riscoprire ideali cui ispirare il proprio operato sono proprio quanti hanno concorso a generare il deserto valoriale che ci circonda, giorno dopo giorno guadagnando minacciosamente terreno. Come? Fabbricando slogan e totem intoccabili – pensiamo all’Europa, alla libertà e alla laicità – che se quotidianamente riecheggiano grazie al contributo di mass media complici, non sono però minimamente sufficienti, sotto il profilo umano, a rimpiazzare quel patriottismo, quella verità e quel patrimonio religioso che, di fatto, hanno concorso a spazzare via. O forse conoscete plotoni di eroi, oggi, disposti a immolarsi per l’Unione europea? E truppe di valorosi disposti a sacrificare tutto per la laicità? Non scherziamo. Secolarizzazione, retorica eurofila e politicamente corretto hanno sì eclissato i «valori» autentici, ma non li hanno in alcun modo sostituiti.

Ecco perché è assai imbarazzante che oggi dei giudici si trovino a dover rammentare l’ovvio – l’obbligo di osservanza, per lo straniero, dei principi della società che lo accoglie -, pur sapendo che non esiste quasi più alcun autentico valore superstite che cementifichi un sistema che, non a caso, va sgretolandosi in ambito familiare, religioso e di condivisione dei valori, appunto. O forse una società che va disintegrandosi è in qualche modo in grado di integrare? E se sì, come diamine potrebbe farlo ammesso e non concesso che tutti gli stranieri, in Europa, desiderino ardentemente fare propri costumi e principi occidentali? Semplice: non può. Anche perché il mondo occidentale, oggi, non è solo a corto di valori ma risulta attraversato – sarei tentato di dire dominato – da insanabili paradossi. Abbiamo infatti una società, grazie alle tecnologie informatiche, di individui con connessioni sempre più veloci ma con legami sempre più fragili; con persone che viaggiano in tantissimi posti, ma che non hanno meta; in un contesto in cui la religione viene rigettata ma poi ci si affida devotamente ai verdetti delle slot machine, delle lotterie, degli oroscopi; un teatro mediatico permanentemente centrato sul sentimentalismo, ma un pubblico pagante sempre meno capace di viverli davvero, dei sentimenti.

Dilatando lo sguardo, dinnanzi a noi si agita poi un mondo occidentale che da una parte non solo crede sempre meno alla democrazia ma quasi la teme – per via dei suddetti populismi, ovvio -, ma dall’altra si sente in dovere ancora di esportarla altrove, quella stessa democrazia, anticipandola con intoccabili bombardamenti umanitari. E che dire del festival dei diritti civili, che si celebra in fatale simultaneità con la negazione dei diritti umani dell’embrione non abbastanza sano, del nascituro a rischio di aborto, del disabile gravissimo che in quel modo – almeno così viene detto – non avrebbe certamente voluto vivere? Fa tutto chiaramente parte della nostra civiltà del paradosso, che oggi dovrebbe indicare ai “nuovi europei” orizzonti ideali che non è più in grado di assicurare neppure a quelli di sempre; un po’ perché accecata dal cosiddetto progresso un po’ perché cronicamente allergica, ormai, ai «valori» autentici che ispiravano santi e poeti prima che fossero rimpiazzati da commissari europei e burocrati; che animavano i popoli prima che essi venissero dequalificati a masse a rieducare; che hanno elevato l’umanità sulla base dei suoi doveri, prima che essa si accontentasse di moltiplicare i suoi diritti. Forse prima di crederci pronti ad accogliere stranieri, dovremmo assicurarci, fra noi, di non essere estranei.

Giuliano Guzzo

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