A cent’anni moriranno prematuramente i più sfortunati. Gli altri, arriveranno tranquillamente oltre. Addirittura – riporta un articolo de L’Espresso – chi nasce ora potrebbe vivere fino a 135 anni. Uno scenario futuro incredibile e insieme da brividi, sotto tanti punti di vista non ultimo quello socioeconomico su cui punta il dito il settimanale di De Benedetti sottolineando che potrebbe esservi «un impatto devastante su sistemi sociali e rapporti tra le generazioni» e chiedendosi se l’allungamento della vita sia realmente un vero affare. Ora, anche mettendo da parte la pur rilevantissima questione economica che, tanto più alla luce del calo della natalità, comporterebbe un mondo popolato in prevalenza da anziani (chi pagherà assistenza e pensioni a costoro?), c’è un aspetto con cui gli ultracentenari di domani dovranno fare i conti ed è strettamente esistenziale.
Vengono a questo proposito in mente le parole di Paul Edgecombe, il protagonista del film e romanzo Il miglio verde, che a 108 anni compiuti sperimenta una condizione praticamente di immortalità che anziché esaltarlo quasi lo soffoca, tanto da fargli dire: «Ah, prima o poi morirò, di questo sono sicuro, non mi illudo di essere immortale, ma avrò desiderato la morte prima che la morte mi prenda con sé. In verità la desidero già adesso […] Ci penso quasi tutte le notti mentre sono a letto, e aspetto». E’ vero, l’attesa della morte di Edgecombe è in prevalenza determinata dal fatto che sua moglie e tutti i suoi amici sono morti lasciandolo solo, tuttavia il suo spaesamento e la sua certezza di non riuscire a dare più senso alla propria vita – «Avrò desiderato la morte prima che la morte mi prenda con sé», dice – non possono non farci pensare a quanto potrebbero provare coloro che, domani, festeggeranno il compleanno soffiando su centodieci o centoventi candeline.
Per cosa vivere fino a 135 anni? Perché assistere ad un indebolimento del proprio corpo ancora più prolungato e inesorabile? Chi ce lo fa fare? Sono questi, in sintesi, gli interrogativi di coloro che nascono oggi e potranno invecchiare molto più di coloro che li hanno preceduti. Interrogativi importanti, tuttavia nuovi solo in apparenza dal momento che, a ben vedere, confluiscono in un’unica, grande – per nulla originale – domanda: quella sul senso dell’esistenza. Lo stesso pensiero che accompagna l’uomo dall’età della ragione in poi, ma che col prolungarsi della vecchiaia s’ingigantirà. Da questo punto di vista, non stupirebbe affatto – nell’eventualità si arrivasse a vivere davvero fino a 135 anni – il diffondersi di suicidi, depressioni e stati di forte insoddisfazione. Perché a chi muore giovane o all’improvviso è almeno concesso di non scervellarsi sul senso della vita, ma agli ultracentenari di domani no: loro rischieranno davvero, come Edgecombe, di desiderare la morte prima che la morte li prenda con sé.
Ecco che allora, per uno strano ma sempre più lampante paradosso, l’uomo del futuro – pur agevolato da una tecnologia da sogno, che gli spalancherà le porte verso ogni stravaganza ed ogni prodigio, incluso quello di una vita lunghissima – si troverà a fare i conti con le domande dell’uomo di sempre. Verrà eliminato ogni disagio, ma non ogni pensiero; soprattutto non il pensiero sull’esistenza, che rimarrà fra tutti il mistero più grande, l’oceano sul quale l’anima di ciascuno, prima o poi, sarà chiamata a specchiarsi. E forse un giorno si scoprirà, tutti assieme, che la scienza può offrire mille opzioni ma nessuna risposta; che anche visitando ogni giorno un pianeta nuovo le sole orme da continuare cercare, in fondo, rimarranno quelle di Dio. Si scoprirà anche, probabilmente, che ogni cosa fatta per se stessi, anche per chi vivrà fino a 135 anni, avrà una scadenza e prima o poi verrà dimenticata, mentre ogni fatica spesa in nome dell’amore rimarrà, lasciando all’umanità un cielo più stellato di prima.

Considerazioni banalotte, non me ne voglia.
Credo ci sia molto di quello che lei riporta ne Il ritratto di Dorian Gray.
Dimenticavo! È un libro scritto da un omosessuale, allora non vale!
;-)
Grazie per questa indimenticabile ironia. Saluti.
Meglio morire a 70-75 anni, fisicamente autosufficiente e lucido mentalmente, piuttosto che vivere fino a 135 anni, dei quali gli ultimi 50, totalmente dipendente da altri, dunque non autosufficiente e possibilmente affetto da patologie tipiche della terza età come l’Alzheimer. Dopo gli 80 anni é difficile non incappare in problemi di autosufficienza, ma soprattutto in problemi mentali, “stonare” e diventare umanamente insopportabile per gli altri.
Se si deve vivere a lungo, almeno si viva con salute e dignità, perché creare un esercito di persone anziane, dunque non autosufficienti, invece di pensare a far nascere più bambini, non é civile, non é rispettoso in primo luogo proprio verso gli anziani stessi, perché li condanniamo a una vita d’inferno.
Se lasciamo invecchiare così la popolazione, senza intervenire sul grave deficit demografico che ci affligge, in cui lo scenario é pochissimi giovani e moltissimi anziani, questi ultimi a cui dovranno rivolgersi per essere aiutati?