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Ma perché la morte di Pippo Baudo sta colpendo così tanto? Come si spiegano queste esequie catodiche che, da ore, proseguono sostanzialmente ininterrotte? Osservo il fenomeno e – partecipe ma al tempo stesso incuriosito – non posso fare a meno di pormi queste ed altre domande simili. Ora, certamente, molto di tutto questo si spiega con la nostalgia e, più precisamente, con il «lutto parasociale» di cui, già negli anni ’50, parlavano sociologi come Donald Horton e Richard Wohl. In effetti, la connessione che legava – e lega – l’Italia intera al grande presentatore scomparso era profondissima, intergenerazionale; ha attraversato decenni, mutamenti, anzi rivoluzioni.

Inoltre, aggiungiamoci la non eccessiva abbondanza di notizie tipicamente post ferragostana (eccettuato il vertice di Trump e Putin), ed ecco come mai, ora, non c’è chi non parli della scomparsa di Pippo Baudo. Tutto spiegato? In realtà, non proprio: c’è dell’altro. E per altro, si badi, non intendo frasi fatte del tipo «lui era televisione», per il semplice fatto, sia detto con rispetto, che non è vero. Intendiamoci: Baudo è stato una colonna della televisione italiana, un monumento, ma forse la televisione incarnata, per così dire, è stato più che altro un suo collega: Mike Bongiorno. La grandezza baudiana non è dunque stata quella di simboleggiare la televisione tout court bensì, a mio modesto avviso, un tipo di televisione.

Pur essendo infatti senza dubbio uno, anzi l’ultimo della vecchia guardia catodica, il conduttore che ci ha lasciato, più che la televisione popolare (alla Bongiorno), quella garbata e sofisticata (alla Tortora), quella elegante (alla Corrado) o quella ironica (alla Vianello), rappresentava un’altra tipologia televisiva: quella autorevole pur essendo nazional-popolare, quella professionale pur essendo leggera, quella rassicurante pur senza essere paternalista. In una parola, Pippo Baudo incarnava meglio di altri – ci si perdoni l’espressione ossimorica – una televisione seria. Classe 1936, molto spesso in doppiopetto e comunque sempre elegante, e con una brava laurea in giurisprudenza in tasca, talent scout coi fiocchi, il mostro sacro dei presentatori era dunque la dimostrazione d’un modo di fare spettacolo che oggi non esiste più.

Il punto – e qui torna l’effetto nostalgia – è che quel modo empatico ma professionale di rapportarsi col pubblico, ormai senza più eredi (eccettuato forse Gerry Scotti), in fondo ci manca. Eccome. Beninteso: i Carlo Conti, gli Amadeus e i Fiorello sono, televisivamente parlando, personalità di tutto rispetto. E sanno spingersi là dove un Baudo non avrebbe mai osato. Ma è proprio questo il fatto: nella conduzione baudiana, pur ovviamente solare, c’era un’autorevolezza che si rifletteva anche nel senso della misura, un’innata capacità di andare a braccio che era sorretta da uno stile autentico. Uno stile purtroppo estinto e che ha trovato nella storia baudiana – conclusasi in prima serata, ovviamente di sabato – una pagina leggendaria. Non resta che augurarsi che qualche giovane conduttore, vincendo la tentazione del trash, possa raccogliere il testimone. Sarebbe il modo migliore, in fondo, di sentire Pippo Baudo ancora tra noi.

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