
Per l’atroce delitto di Martina Carbonaro, uccisa a 14 anni a colpi di pietra dall’ex fidanzato nemmeno diciannovenne, Alessio Tucci, che non riusciva ad accettare la fine della loro relazione che durava da due anni, sono subito ripartiti i consueti tormentoni sull’urgenza di un lavoro culturale, sul bisogno di più educazione all’affettività nelle scuole, sul patriarcato che esiste e resiste tra le giovani generazioni. Ora, mi si scuserà se, senza dubbio semplificando, mi soffermo su quello che invece a me pare il nocciolo della questione: i «no» che Martina aveva detto ad Alessio e che questi non accettava o non voleva capire. Alludo al «no» a tornare assieme, al «no» ad una seconda possibilità, forse anche il «no» ad un ultimo approccio, chissà.
Perché penso sia il nocciolo della questione? Semplice: perché i «no» sembrano tristemente passati di moda. I genitori faticano a dirli, figurarsi i figli ad accettarli, ma più in generale chiunque pare oggi avere un problema con il «no» a non poter fare questo o quello. Non a caso siamo tutti – chi più, chi meno – eredi di una rivoluzione culturale, quella sessantottina, che ha avuto uno dei suoi motti più fortunati in «vietato vietare». Addio ai «no», insomma. Ed oggi quanto ci mancano, i «no». Soprattutto, quanto ci manca riuscire a vedere ciò che celano tanti «no», e cioè grandissimi «sì»: sì alla vita, a quella propria a quella altrui, sì al rispetto, sì alla dignità, sì al futuro di Martina. Lo stesso «sì» che Alessio, incapace di apprezzarne la bellezza, ha ucciso con un disumano «no» senza accorgersi che così, di futuro, uccideva anche il proprio.
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