
Oggi è san Giuseppe, festa del papà. Ma c’è ancora, in realtà, qualcosa da festeggiare? La domanda non nasce da una provocazione, ma dalla considerazione della profonda destabilizzazione che vive oggi la figura paterna. Una crisi che, di fatto, è anzitutto assenza, se si pensa a quanti bambini – a causa essenzialmente di divorzi o separazioni – crescono vedendo poco e, talvolta, neppure conoscendo il loro papà. Poi vi sono pure, purtroppo, i figli con «due padri» costretti a crescere senza madre, ma il problema dell’assenza paterna è senza dubbio più diffuso, con tutte le conseguenze del caso.
In tal senso, le statistiche più eloquenti sono le statunitensi, che dicono come i figli senza padre rappresentino il 63% dei suicidi giovanili, il 71% di adolescenti incinte, il 75% di adolescenti presso i centri di recupero per tossicodipendenti, l’85% di giovani con disordini comportamentali e della popolazione carceraria giovanile nonché il 90% dei bambini in fuga e senza fissa dimora. Tutto ciò, beninteso, non deve esser letto in termini causali, come se cioè l’assenza paterna determinasse automaticamente le situazioni peggiori ma certamente il non avere il padre costituisce un serio fattore di rischio.
Senza dimenticare come, comunque, vi siano due modi di leggere i dati poc’anzi ricordati. Infatti, se da un lato la mancanza del riferimento educativo maschile costituisce un problema, dall’altro la sua presenza rappresenta un’opportunità, come provato da molte ricerche. Penso ad uno studio apparso nel 2011 sul Canadian Journal of Behavioural Science, che ha messo in luce come i padri contribuiscano positivamente allo sviluppo dell’intelligenza dei figli o a una ricerca, apparsa l’anno successivo, nel 2012, su Child Development dalla quale è emerso un legame fra la presenza paterna e la crescita, in un giovane, di elementi quali abilità sociali ed autostima.
Un lavoro più ampio e significativo è però quello pubblicato nel 2016 su BMJ Open, esito di un’analisi su un campione di oltre 14.000 giovani britannici, con cui si è definitivamente appurato il decisivo ruolo paterno nello sviluppo infantile, ambito a lungo studiato parzialmente, vale a dire con esclusiva focalizzazione sulla figura materna. Sorprendentemente, oltre ai figli pare siano gli stessi uomini a beneficiare del loro essere padri. Esistono infatti studi che hanno rilevato come una paternità vissuta con pienezza, vale a dire a stretto contatto coi figli, contribuisca ad abbassare, nell’uomo, i rischi di problemi di salute mentale e fisica.
Ma c’è di più: in How Fathers Care for The Next Generation (1993), testo di John Snarey non recente ma basato su oltre quattro decenni di ricerca, si mette in luce come i padri che si sono occupati attivamente dello sviluppo intellettuale e sociale dei figli, rispetto agli altri, siano quelli che hanno poi avuto una carriera di maggior successo. Tornando invece al motivo per cui il padre è fondamentale per la buona crescita di un bambino, c’è da dire come esso sia banale e al tempo stesso politicamente scorretto, essendo basato su un fatto: un papà è differente da una mamma. Non solo, ovviamente, dal punto di vista genetico o anatomico, ma proprio nel ruolo educativo che riveste, alternativo e complementare a quello materno.
In estrema sintesi, si potrebbe il tal senso affermare che se una madre il figlio lo mette al mondo, il padre lo introduce al mondo; che mentre la mamma al neonato dona anzitutto il latte il padre procura il pane, e che se lei insegna ad amare a lui, come scrive lo psicanalista Massimo Recalcati in Cosa resta del padre? (2017), spetta l’enorme compito di «offrire testimonianza di come sia possibile […] esistere senza voler morire e senza impazzire». Tutto ciò è assai osteggiato da quanti reputano le differenze tra i sessi, e quindi anche tra le figure genitoriali, qualcosa di culturalmente costruito. Di qui, aggiuntivo a quello dell’assenza, un secondo aspetto di crisi della figura paterna, che sta appunto nel progressivo indebolirsi della stessa.
Contribuisce a questo processo demolitorio la tesi – rilanciata continuamente dai media e accolta anche a livello istituzionale – secondo cui il padre, in realtà, sarebbe solo un genitore “uno” o un genitore “due”, senza peculiarità specifiche, o comunque qualcuno che farebbe bene reiventarsi «mammo», a celare la virilità e, in definitiva, la propria natura di maschio. Dunque, bollato ormai come anacronistico se non sessista qualsivoglia riferimento all’autorità paterna, la stessa esistenza della figura del padre risulta fortemente messa in discussione. Il che non è un peccato solo per i figli, ma anche per l’intera società.
Sì, perché la ricerca dice che padri sono quegli uomini che mostrano livelli più contenuti di condotte socialmente devianti; è per esempio molto meno probabile che i padri abbiano interazioni negative con la polizia, condanne penali, dipendenze da alcol o droga, problemi finanziari, e siano coinvolti in abusi o aggressioni (Ageing and Society, 2009). Non solo. Dai test della personalità si è scoperto come, rispetto agli uomini senza figli, i padri – che ripongono più impegno nel lavoro, avendo più possibilità d’una promozione e di alti guadagni (Social Psychological and Personality Science, 2017) – mostrano una maggiore tensione verso comportamenti altruistici e pro sociali (Journal of Population Research, 2015).
Ecco che allora la ricorrenza di san Giuseppe costituisce un’ottima occasione per ricordare non solo l’importanza per la figura paterna per i figli – per tutti i figli -, ma anche per l’intera società. Conseguentemente, nonostante il discredito gettato da anni ad opera di un certo filone culturale, sempre pronto ad agitare lo spauracchio del patriarcato, i padri dovrebbero essere ricordati non solo oggi, ma ogni giorno, e possibilmente pure celebrati. Perché, se da un lato son certamente esseri umani come tutti gli altri, quindi coi loro difetti, dall’altro rappresentano, dati alla mano, gli uomini migliori. Quelli che lasciano il mondo migliore di come l’hanno trovato – o almeno ci provano – per amore delle loro mogli e dei loro figli.
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«Giuliano Guzzo accumula una serie impressionante di dati per mostrarci una realtà che ignoriamo. E che dimostra che il Maestro non ha esaurito le carte da giocare» (Rino Cammilleri).
«Un prezioso manuale con corrette interpretazioni su moltissime tematiche. Può senz’altro contribuire a trasformare la “fede liquida” in una “fede forte”» (Unione Cristiani Cattolici Razionali)
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