Il calice della sconfitta, per ovvie ragioni, non piace a nessuno. In nessuna circostanza: figurarsi quando manco è meritato, con la pozione che si fa ancora più indigesta. Per questo non si può che provare ammirazione per come Luis Enrique, l’allenatore della Spagna, ieri abbia incassato l’eliminazione della sua squadra. Vederlo aggirarsi serafico, consolando i suoi calciatori e congratulandosi con i nostri, ecco, è stato toccante. Ha pure dichiarato che alla finale tiferà Italia. L’uomo era insomma deluso ma non abbattuto, amareggiato ma non rancoroso, perdente ma non sconfitto. Tutto un equilibrio sopra la malinconia, rivisitando Vasco.

C’è chi osserva come Enrique sia così perché temprato dal dolore per la figlia Xana, morta a 9 anni per un cancro alle ossa. Ora, si dice, lui dimora in un’altra dimensione. Perché dopo una perdita del genere pure quella d’un Europeo conta quello che conta. Ciò però non nulla toglie al valore assoluto della lezione impartita – non alla nazionale, attenzione, ma a tutti noi – da questo commissario tecnico. In effetti, a strillare e dimenarci dopo un traguardo raggiunto, grazie tante, siamo bravi tutti. È saper perdere, in realtà, il vero enigma: scusate, ma come diamine si fa? Ecco, grazie alla sportività e alla compostezza olimpica dimostrata ieri da Enrique ora abbiamo un’idea. Anzi, un modello.

Giuliano Guzzo

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