Quanto accaduto nelle scorse ore a Washington, con l’irruzione in Campidoglio di alcuni gruppi di manifestanti pro-Trump, che hanno interrotto il processo di certificazione del voto presidenziale che ore dopo, comunque, ha incoronato Joe Biden, è senza dubbio qualcosa destinato a restare nei libri di storia. Non ovviamente tra le pagine luminose – il bilancio di ben quattro morti basta, da solo, ad escluderlo -, bensì tra quelle tragiche per ragioni civili, istituzionali e politiche fin troppo ovvie.

Il fatto però che tale occupazione sia avvenuta – e che il palazzo del Congresso sia stato teatro di scontri – obbliga ad esaminare con cura l’accaduto. Limitarsi a commentare indignati la violazione del «tempio della democrazia» o le corna e la pelliccia di Jack Angeli, lo «sciamano trumpiano», è infatti lecito, ma miope. Appare parimenti incauto affidarsi alle riflessioni offerte ora dai grandi media, gli stessi che attribuivano a Joe Biden i 12 punti di vantaggio (ha poi vinto con meno della metà di quei punti) e che per mesi hanno strizzato l’occhio al teppismo firmato Black Lives Matter salvo poi, ora, reinventarsi paladini di legge e ordine.

Per capire l’accaduto urge quindi – premessa una doverosa condanna di ogni atto di violenza, e ieri ne abbiamo visti troppi – partire dai fatti. E i fatti dicono che l’irruzione in Campidoglio è avvenuta ad opera di svariate decine di manifestanti; per alcuni veri sostenitori di Trump, per altri pedine di una false flag orchestrata per delegittimare l’elettorato del tycoon. Una chiave di lettura, quest’ultima, che non mi convince, ma il punto – per tornare ai fatti – è un altro: fuori dal «tempio della democrazia» c’erano parecchi altri manifestanti. Qualche migliaio, ad essere prudenti, riuniti secondo le prime ricostruzioni giornalistiche in una macedonia di sigle estremiste e suprematiste.

Ora, anche il più sprovveduto analista politico sa che, in genere, per ogni singolo manifestante che scende in piazza per una determinata causa, ce ne sono molti altri che, da casa o dal posto di lavoro, quella causa appoggiano. Ritenere quindi Trump oggi un leader seguito solo da un manipolo di fanatici che ancora dubitano della regolarità delle presidenziali è fuorviante e pericoloso. Fuorviante per la ragione appena detta e perché non Breitbart ma Gallup ha da poco certificato che, con il 18% dei gradimenti, il presidente uscente è l’uomo più ammirato d’America del 2020: molto più di Joe Biden (il 6%) e pure più di Obama (15%), da una dozzina d’anni vittorioso nella classifica.

Allo stesso modo, la regolarità delle ultime elezioni è ritenuta dubbia persino da elettori di parte democratica. Questo ci porta a capire come mai sia pericoloso credere Trump isolato: perché impedisce di cogliere un disagio e una rabbia che esistono e di cui le frodi elettorali, vere o presunte, non sono che l’ultima scintilla scatenante. Naturalmente, specie dopo i fatti di ieri, bisogna andarci piano prima di sposare certi sentimenti. Ma liquidarli con sdegno vuol dire sia farla passare liscia a media disonesti – scontri come quelli visti, studiosi seri anche italiani, penso a Germano Dottori, li avevano previsti, ma la grande stampa e le tv hanno fatto fino all’ultimo finta di nulla – sia aiutare Trump stesso.

Sì, perché se il partito Repubblicano condanna, come ha fatto il vicepresidente Mike Pence, i responsabili delle violenze di ieri, ma non si accorge che le corna di bisonte di Angeli sono solo le ridicole punte di un iceberg immenso, con cui è doveroso confrontarsi, rischia di fare elettoralmente il gioco Democratico. A meno che, ovvio, non si ritenga Trump – che ha dalla sua già una storica vittoria nel 2016, oltre a 73 milioni di voti presi solo una manciata di settimane fa – incapace di avere il polso della situazione e di prevedere che, una mezza insurrezione come quella di ieri (con ovvie complicità anche nelle forze dell’ordine), sarebbe stata la sua fine politica. Vedremo.

Quel che intanto appare improbabile, anche se sta per lasciare la Casa Bianca, è che il presidente uscente sparisca nell’immediato dalla scena. Per il semplice fatto che ha una sua base elettorale di certo insufficiente per vincere senza il partito Repubblicano, ma più che sufficiente per guastare la festa, e per un po’, allo stesso GOP. Sia nei confronti della presidenza Biden, sia verso il suo partito di riferimento, insomma, in queste ore Trump ha assunto le pose di uno sfrontato Jep Gambardella della politica che, come quello di Sorrentino, non pago di partecipare alle feste, si è preso il potere di farle fallire. Oltre a tali considerazioni, più partitiche, ce n’è almeno una generale che non si può omettere.

Se infatti consideriamo che Trump, anche prima di ieri, aveva contro il 90% dei mass media, i giganti della Silicon Valley e una parte importante del suo partito – tra i quali svetta George Bush, nelle scorse ore indignatosi come uno per cui la democrazia e le bombe vanno sì d’accordo, ma Not in My Backyard – non possiamo sottrarci ad una domanda: e se le violenze inaccettabili di ieri fossero l’esecrabile epifania di un disagio profondo e che, pur non prevalendo alle urne, esiste numeroso e, senza il tycoon, resterebbe inascoltato? I Repubblicani, e non solo, non possono non pensarci.

Dopotutto, la democrazia può morire in tanti modi; e associare le istanze di vasta fasce di elettorato alle sue frange più esagitate non è certo un modo per tenerla in salute. Al contrario, il modo migliore per risanare la ferita di ieri è probabilmente quello di prendere atto che in America c’è una democrazia sanguinante. Ma il sanguinamento – che al Campidoglio è stato copiosamente drammatico – non è affatto iniziato nelle scorse ore. Perché Trump ha senza dubbio enormi responsabilità sulla sfiducia che cavalca. Tuttavia, per venire a capo delle ferite della democrazia, bisognerebbe pure chiedersi chi l’ha creata, quella sfiducia.

Giuliano Guzzo