Tra gli anniversari di questo 2020 occupa un posto di rilievo quello dell’aborto legale, introdotto per la prima volta nella Russia comunista il 18 novembre 1920, cento anni fa esatti, riformando la legislazione precedente, che con due articoli del codice penale, il 1462 e 1463, sanzionava la pratica con pene che arrivavano all’esilio e ai lavori forzati. Questa novità, prima di essere elevata dalla cultura dominante a intoccabile «conquista» civile, fu una delle prime riforme di uno dei regimi più sanguinari della storia, che anticipò – e di molto – le trasformazioni del ‘900, dato che il secondo Stato a varare l’aborto legale, oltre un decennio più tardi, fu il Messico nel 1931.

Per la verità i comunisti non solo anticiparono una tendenza che avrebbe interessato l’Occidente tra gli anni ‘60 e ‘70, ma si posero addirittura in controtendenza se pensiamo che solo pochi mesi prima, nel luglio 1920, la Francia aveva approvato una legge che vietava vendita e promozione dei contraccettivi. Ma torniamo con l’attenzione a Mosca, dove il regime varò l’aborto legale – riferisce un articolo apparso nell’agosto 1956 sul New England Journal of Medicine – per eliminare gli aborti clandestini in conseguenza dei quali fino al 50% delle donne restava vittima di infezioni e il 4% moriva. Curiosamente, la lotta all’aborto clandestino è la stessa motivazione addotta poi nei Paesi occidentali per depenalizzare la pratica abortiva.

In realtà le disposizioni sovietiche, nell’introdurre l’aborto legale, prevedevano anche dei paletti quali il fatto che gli interventi dovessero essere effettuati in strutture pubbliche, con tanto di obbligo per la donna, dopo l’operazione, di restare a letto tre giorni e due settimane a riposo; per i medici invece l’obbligo era quello di scoraggiare la donna intenzionata ad abortire nella misura in cui, alla base di tale decisione, non ci fossero motivazioni «sociali, economiche o mediche». Il legislatore comunista cercò insomma di regolamentare anche con un certo rigore, se così si può dire, l’aborto di Stato. Tuttavia, quel tentativo sarebbe presto fallito sotto i colpi di una vera e propria catastrofe.

Infatti, dal 1920 in poi le pratiche abortive dilagarono, passando dai 3.3 aborti ogni 1.000 nati del 1924, ai 58.8 aborti ogni 1.000 nati del 1934. Nella sola Mosca gli aborti volontari passarono dai 7.969 del 1922 ai 31.986 del 1926, con uno sconvolgente aumento di oltre il 300% in appena quattro anni. Allargando lo sguardo al territorio russo si può osservare, scrive la studiosa Cristina Carpinelli, come «molte donne» continuassero «a ricorrere agli aborti illegali presso le babki, soprattutto nelle campagne, dove spesso gli ospedali non erano attrezzati per questo tipo di intervento» (Donne e povertà nella Russia di El’cin, FrancoAngeli 2004). Il debutto dell’aborto di Stato, volto ad azzerare la clandestinità, fu dunque un fallimento.

Un fallimento, oltretutto, dai costi sociali enormi. In Russia’s Peacetime Demographic Crisis (Nbr Project Report, 2010) un economista politico esperto di questioni demografiche come Nicholas Eberstadt ha osservato un fatto certamente non scontato ed assai indicativo: a dispetto delle gravissime perdite dovute alla Prima Guerra Mondiale, fra il 1914 e il 1917 la popolazione russa è aumentata, mentre «nel corso dei sei anni seguenti, invece, la popolazione totale stimata in Russia è diminuita di oltre tre milioni di unità, quasi il 4%». Eberstadt ascrive il fenomeno alle profonde trasformazioni subite dalla società in quegli anni, ma è francamente difficile escludere il contributo allo spopolamento dell’aborto, che come detto dilagò ovunque.

Il risultato, complici pure il divorzio la disgregazione familiare, fu una destabilizzazione della società tale che nel 1936, sotto Stalin, il legislatore sovietico corse ai ripari introducendo nuovi limiti all’aborto, che restava consentito solo in caso di «pericolo la vita o minaccia grave» della salute materna. Successivamente, nel 1955, l’Unione sovietica fece altre aperture verso l’aborto legale; ma è singolare – e dovrebbe far riflettere – il fatto che sia stato il totalitarismo ateo per eccellenza il primo da un lato a legalizzare la pratica abortiva e, dall’altro, a far poi marcia indietro, constatato quanto la sua diffusione sia devastante. Historia magistra vitae si potrebbe quindi commentare non si corresse il rischio di passare per pro life, cosa sacrilega agli occhi di quel politicamente corretto che è il regime di nostri giorni.

Giuliano Guzzo