Spero che questa volta una voce si levi. Una voce chiara, possibilmente una voce religiosa, in ogni caso una voce incavolata come la mia, per quanto avvenuto a San Francisco, dov’è stata abbattuta una statua di San Junípero Serra, il francescano evangelizzatore della California. Ovviamente l’abbattimento è avvenuto ad opera di teppisti sedicenti antirazzisti, con altrettanto ovviamente la solita accusa: la complicità nel genocidio indigeno. Un’accusa che circola da qualche anno (nel 2017 una statua del santo venne decapitata e nel 2018 l’università di Stanford annunciò la rimozione di ogni riferimento, nel campus, al missionario) e sposata da alcuni storici.

D’accordo, ma chi era davvero padre Serra? Un francescano che lasciò una cattedra universitaria di teologia per recarsi prima in Messico e poi in California. Una scelta avventurosa che gli comportò rischi e sofferenze: nel viaggio per mare dalla Spagna rischiò il naufragio due volte e, giunto in Messico, gli si formò una dolorosa piaga alla gamba. Ciò nonostante, viaggiò sistematicamente a piedi per 35 anni (solo in una circostanza, quand’era anziano, gli venne prestata una lettiga) e fece il possibile per essere vicino agli indigeni: imparò la loro lingua e si adoperò per moderare l’approccio dei militari spagnoli nei loro confronti.

Come? Evitando fosse imposta la lingua ispanica, consentendo che i nativi si allontanassero dalle missioni per lo scambio di merce con altre tribù e chiedendo pene miti quando un indiano incorreva nella violazione della legge instaurata dagli spagnoli. Ancora, padre Serra – che, da buon pastore d’anime, amava gli indiani anche spiritualmente – chiese ed ottenne l’autorizzazione ad amministrare la cresima, facoltà di norma riservata ai vescovi, impartendola ad oltre 5.300 nativi. «Sempre avanti!» era il suo motto di pastore deciso a non mollare mai. Ecco, questo era padre Serra. Un uomo i cui odierni odiatori non valgono neppure la piaga che aveva sulla gamba.

Giuliano Guzzo