Ho scoperto per caso della finale di Coppa Italia tra Napoli e Juventus, ed altrettanto per caso ho scoperto dell’esistenza di Sergio Sylvestre, per cui mi tengo al largo da ogni valutazione sulla sua interpretazione, pare abbastanza disastrosa, dell’inno di Mameli. Tuttavia, proprio non posso tacere un senso di sconcerto per il «no justice, no peace» che – se non ho inteso inteso – il cantante statunitense ha infine urlato pugno al cielo, in ideale unione a Black Lives Matter. Un movimento non di protesta, ma di devastazione morale prima che monumentale.

Basta prendere il sito ufficiale della banda sedicente antirazzista alla pagina «ciò in cui crediamo», dove purtroppo si legge: «Noi distruggiamo il requisito prescritto dall’Occidente della struttura di famiglia nucleare, sostenendoci reciprocamente come famiglie estese e “villaggi” […] Incoraggiamo una rete di affermazione queer. Quando ci incontriamo, lo facciamo con l’intenzione di liberarci dalla stretta morsa del pensiero eteronormativo, o piuttosto, del credo che tutti nel mondo siano eterosessuali». Queste farneticazioni, a quanto pare, sono ciò in cui crede pure Sylvestre. E io credo che l’inno di Mameli, ieri, sia la cosa che gli è venuta meglio.

Giuliano Guzzo