E adesso chi li sfoggerà più, quegli eccentrici papillon? È solo una delle domande che solleva la morte di Roberto Gervaso, uomo dai 300 papillon, dalle 200 donne e dai 100 cappelli («tutti Borsalino», amava precisare) mancato oggi. Sulle spalle, per restare ai numeri, aveva 82 anni, oltre 50 libri e qualcosa come 25.000 originali aforismi, motivo per cui è lecito immaginare che il trapasso di Robertino – così lo chiamava Montanelli – sia solo apparente. In effetti, questo prolifico giornalista e scrittore la cui ironia tagliente faceva che gli si potesse perdonare tante cose (l’iscrizione alla massoneria, per quanto mi riguarda) continuerà a vivere per vari motivi.

La ragione principale per cui è ragionevole ipotizzarne sopravvivenza, però, sta proprio nel giorno della sua dipartita, avvenuta il 2 giugno, festa cioè di quell’Italia repubblicana e di quegli italiani cui Gervaso ha dedicato tante pagine nate dallo sguardo che, indagatore, filtrava dai suoi occhialini. A tal proposito, pesco dai miei scaffali un suo volume a caso: «Siamo fatti male, ma potremmo essere fatti peggio. Non ci perdiamo mai d’animo perché siamo pieni di risorse, non sempre oneste, ma sempre utili […] non siamo un popolo serio, e anche per questo siamo un popolo simpatico. Amiamo la vita, e ne siamo ricambiati» (Italiani pecore anarchiche, Mondadori 2003, p.137). Riposa in pace, ultimo dei dandy.

Giuliano Guzzo