«Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Su questa barca ci siamo tutti: tutti». Della straordinaria meditazione papale di ieri – risuonata sotto la pioggia, in una piazza San Pietro deserta e buia, quasi spettrale – questo è stato probabilmente il passaggio più forte, quello con cui il Santo padre, prima della benedizione eucaristica Urbi et Orbi, ha meglio fotografato l’odierna condizione dell’umanità. Attenzione: non la condizione dell’umanità cristiana o della comunità dei praticanti, ma dell’umanità intera, nessuno escluso.
Se infatti c’è un dato che l’emergenza del coronavirus ha messo a nudo – un dato preesistente, ma che la «normalità» quotidiana ben mimetizza -, è questo: la vulnerabilità e quindi l’insicurezza dell’uomo contemporaneo. Il che, pur essendo elemento ancestrale e connaturato all’umanità, oggi appare nuovo dato che siamo stati cresciuti nell’ingannevole convinzione che con istruzione, cultura e in definitiva benessere avremmo potuto vivere al riparo, salvo sfortunate eccezioni, dalla sofferenza e dalla malattia. Invece no: la sofferenza e la malattia – questa la durissima lezione del coronavirus – ci riguardano tutti, dall’ultimo anziano bergamasco al medico più stimato fino al principe d’Inghilterra.
Fin qui, però, la constatazione è puramente laica, alla portata di chiunque. Quel che di davvero travolgente, parlando ieri all’ombra del Crocifisso della peste del 1522 – portato da San Marcello al Corso a piazza San Pietro – e della Madonna Salus Populi Romani – trasferita da Santa Maria Maggiore al Vaticano -, Papa Francesco ha ricordato che sì, «su questa barca ci siamo tutti», ma in quel «tutti» è ricompreso un ospite speciale, Gesù Cristo, che allo spavento dei discepoli per la furiosa tempesta in corso, si risveglia (era talmente fiducioso in Dio, prima, da riuscire a dormire) e con tono quasi seccato dice: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?» (Mc 4,40).
Ora, è davvero difficile non farci interpellare da questa domanda anche oggi, duemila anni dopo. Per un motivo semplice: la fede scarseggia. Sì, adesso che l’economia è paralizzata, la politica anche europea vacilla e perfino la scienza e la medicina paiono in affanno – nonostante l’eroismo di medici, infermieri e operatori sanitari -, la fede manca. Ma non manca a caso, ovviamente. Manca perché c’era, ma era riposta altrove, in quelle false sicurezze discioltesi in pochi giorni, come neve al Sole. Manca cioè perché non era chiaro che può arrivare il momento, ed è difatti arrivato, in cui diviene palese che «nessuno si salva da solo», per riprendere la meditazione del pontefice. Quindi, che fare?
Per un singolare, forse irripetibile paradosso antropologico e storico, l’umanità del 2020 – quella tronfia, tecnologica, sicura di sé e del fatto che la religione sia mera superstizione – che cosa fare se lo è sentita indicare, ieri, dalla sola voce di un uomo anziano, che con visibile fatica attraversava un’enorme piazza vuota bagnata da una pioggia simile a lacrime: quella del Papa, che ad un certo punto ha richiamato il solo «annuncio che ci salva: è risorto e vive accanto a noi». Così, mentre c’è chi ancora si affanna a cercar risposte nella Borsa, nei vertici Ue o negli “esperti” dei talk show, ecco che spetta alla bimillenaria Chiesa affermare la sola verità che dà speranza: siamo tutti sulla stessa barca, ma con Gesù Cristo. Ed è solo grazie a Lui che non abbiamo nulla da temere.
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